
The Last Hillbilly – Canti dalla Terra Desolata
«Everybody knows that we are ignorant, we are uneducated, we are poor, we are violent, racist, inbred. And it’s all true. Every stereotype is stuck in the 30’s. Every Hillbilly’s a coal miner, every hillbilly rides a mule, wears overalls, and it’s all true» the last hillbilly
Così, guardandoci dritti negli occhi, ci accusa Brian Ritchie, the last hillbilly d’America.
Se la parola redneck ha, nel nostro immaginario, una corrispondenza più o meno stereotipata con gli abitanti dall’indole reazionaria e conservatrice degli Stati del Sud degli USA, tra le campagne e i piccoli centri urbani della grande fascia territoriale che si dispiega dal Texas alla Florida, il termine hillbilly, dispregiativamente connotato, indica invece coloro che vivono nelle aree rurali e montuose della regione centro meridionale degli Appalachi: quei boschi, brughiere e montagne che fanno da sfondo alle note di Take me home, il classico di John Denver.

Stati che dai tempi del New Deal rimasero indietro nella furibonda corsa al progresso del Paese, e che negli ultimi anni, con l’elezione di Donald Trump, sono divenuti simbolo di quelle aree dimenticate che improvvisamente hanno fatto sentire la propria voce esprimendo un voto di protesta e antisistema. Brian continua, illuminato dalla lugubre luce del falò:
«Hillbilly è una parola bloccata nel passato, ci è rimasta impantanata. Ma è divenuta popolare nel nostro presente… Sai, siamo i responsabili dell’elezione di Donald Trump, e di tutto quel casino. Si dice che il significato della parola Kentucky sia “The land of tomorrow”, ed è davvero uno scherzo crudele, perchè Hillbilly è una parola che non si porta dietro molto futuro».

E proprio in Kentucky, nella remota comunità di Talcum, è ambientato The Last Hillbilly, documentario selezionato all’interno della sezione indipendente ACID per il (mancato) Festival di Cannes 2020, e ora presentato al trentottesimo Torino Film Festival nella sezione Internazionale di TFFdoc.
I registi, Diane-Sara Bouzgarrou (già al TFF 2017 con il mediometraggio Je ne me souviens de rien, qui al suo lungometraggio d’esordio), e Thomas Jenkoe (questo il suo terzo documentario), seguono la quotidianità di Brian Ritchie, discendente delle generazioni che colonizzarono e popolarono quelle zone remote, prima come avventurieri, poi come minatori, ed erede di una “Waste Land” – come si intitola uno dei capitoli del film – che non ha mai voluto lasciare, nonostante il declino economico e la progressiva chiusura delle miniere.

All’inizio del film si leva drammatica la voce del protagonista, come un ancestrale monito di un predicatore, amalgamandosi alle visioni, più che alle vedute, dei paesaggi aspri e selvaggi del Kentucky, accentuati dall’accompagnamento sonoro misterioso e inquietante composto da Jay Gambit.
Cantore della propria condizione e di quella dei suoi simili, voce narrante suggestiva e potente che accompagna con parole in versi e in prosa diversi momenti del film, per Brian il termine hillbilly è diventato un appiglio identitario, una propaggine mitica di un passato perduto.
Perché quella dell’hillbilly è anche la condizione di chi resiste alla modernizzazione e sfugge all’illusione del progresso e del consumismo, e che proprio per questo si sente – ed è – libero.

La colonna sonora distilla la narrazione di un universo decadente, e riflette la desolazione e l’isolamento di questi luoghi, illuminati dai bambini, membri di una generazione sospesa tra la noia e la mancanza di orizzonti, che timidamente tentano di immaginare un futuro, o forse addirittura un mondo, al di fuori di Talcum.
Brian è l’ultimo anello di congiunzione tra le generazioni precedenti e quelle nuove, che hanno radicalmente e irrimediabilmente perso il contatto col passato e con la tradizione.

La tecnologia, che ha azzerato le distanze – reali e mentali – tra le zone rurali del Kentucky e il resto del mondo, irretisce anche i suoi quattro figli irretiti, a cui Brian dice, davanti un falò:
«Sono cresciuto in un mondo dove coltivavamo il nostro stesso cibo, dove uccidere i cervi faceva parte della nostra stessa identità. Erano gli anni ’90, ed è fottutamente strano, perchè in quegli anni nel resto dell’America la gente non coltivava il suo stesso cibo, non sparava ai cervi, o cose del genere. Tutte le cose che amate, Nintendo, smartphone, tablet, TV, tutta quella merda è davvero nuova e non durerà a lungo. Ci sarà una fine»

L’inevitabile processo di modernizzazione – e digitalizzazione – che ha colpito la sua terra natale molto più tardi che in molte altre parti del mondo, e la consapevolezza che quelle ultime maglie identitarie si stanno allentando e sgretolando dettano la fine non solo di un’epoca, ma anche di un modo di essere e sentirsi umani:
«Io sono l’ultimo hillbilly. E sapete perchè? Sono stato l’ultimo bambino libero d’America. Voi ragazzi siete intrappolati dentro Youtube, nei vostri smartphone, nei vostri video coreani o quel che sono i vostri giochi. Non sarete mai capaci di mettere semplicemente giù quei cosi e andarvene».
Le immagini in Academy ratio, formato degli anni ’30, sembrano raffigurare un microcosmo bloccato in quell’epoca: gli animali, compagni domestici o prede di caccia, affiancano i protagonisti avvinghiati alla propria terra natia. Questa connessione archetipica molti digerisce ed incuba in un legame vitale ed altrettanti ne sputa lontano, esuli per sempre in un mondo privo di tradizione.

Entriamo nella quotidianità di uomini che mettono radici profonde nella propria terra, divenendone parte: torna incessante, in The Last Hillbilly, l’immagine del cimitero e della sepoltura.
Questo movimento ciclico della camera sulle lapidi di famiglia, sul gesto dello scavare la fossa per i propri cari, sulla terra mossa e pregna di memorie silenziose sembra raccontarci un rapporto scevro di illusioni con il ciclo della natura: la morte fa parte dell’esistenza, e l’immagine della tomba, che in noi evoca il sentore della morte e il terrore della scomparsa, diventa invece ricordo della vita.

Con le pellicole della New Hollywood, i redneck e gli hillbillies compaiono sui grandi schermi per far emergere il contrasto sociale tra popolo rurale e abitanti delle città, soprattutto negli anni in cui le lotte per i diritti civili e i movimenti di protesta trovavano nell’America retrograda e rurale il loro principale avversario interno: basti pensare ai redneck di Easy Rider (Dennis Hopper, 1969) o agli hillbillies di Un tranquillo weekend di paura (John Boorman, 1972), ostili e ritratti alla stregua di freaks.
Questa rappresentazione è arrivata ai nostri giorni del tutto incancrenita, mero strale parodico dell’entertainment liberal, ennesima concausa della già avanzata polarizzazione socio-politica americana.
In questo solco si inserisce anche l’acuta – ma brutale – satira di Sacha Baron Cohen nell’ultimo Borat, che fa della raccapricciante mostra dei personaggi della Pancia americana la sua provocazione di punta.

Le stesse stereotipie, slavate in narrazione mainstream, si rintracciano nell’ultima grande produzione Netflix, firmata da Ron Howard e con protagoniste Amy Adams e Glenn Close, che, non a caso, si intitola Hillbilly Elegy (in italiano Elegia Americana), adattamento dell’omonimo libro di memorie di J. D. Vance: questa visione moderna e drammatica del sogno americano si concentra sul confronto di tre generazioni di una famiglia disfunzionale appalachiana, nel sud dell’Ohio, più che sugli aspetti sociologici e politici che hanno portato una popolazione dimenticata e stremata dalla povertà ad abbracciare la politica sovranista di Trump, sottotesto portante dell’opera scritta.
A questa retorica si contrappone un cinema di ricerca, capace di intrecciare istanze collettive e individuali con attenzione antropologica, sfruttando le possbilità dell’osservazione e del dispositivo come veicolo di comprensione e non di giudizio. L’esempio più integralista nel direct cinema di Frederick Wiseman è Monrovia, Indiana (2018), con il suo viaggio nell’America dell’entroterra trumpista.

The Last Hillbilly è un documento lirico che non inciampa nella presunzione di superiorità, evitando al contempo pietismi: Bouzgarrou e Jenkoe esplorano in profondità la condizione di persone dimenticate e relegate in stereotipi generalizzanti, per raccontare una storia nascosta dalle invisibili barriere dell’isolamento, sia autoimposto sia derivante dallo stato di abbandono sociale ed economico.
Il documentario risulta vivido ed efficace grazie ad un montaggio libero da linee narrative artificiose, che procede invece per suggestioni impressionistiche: sprazzi di consueta vita giornaliera e silenziosi paesaggi sconfinati, momenti di gioco, contemplazione, riposo e lavoro. Complice anche il lunghissimo periodo di ambientamento, durato sette mesi, che ha permesso ai due registi di entrare in sintonia e in confidenza con la famiglia Ritchie, così da catturare con naturalezza la loro quotidianità riducendo al minimo il rischio di influenzarla ed edulcorarla.

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