
33 Giri – Italian Masters | Intervista a Edoardo Rossi
Il 18 novembre arriva su Sky Arte il primo episodio della nuova stagione di 33 Giri – Italian Masters, docuserie che riscopre alcuni dei più grandi dischi della musica italiana, incontrando in prima persona i protagonisti che vi hanno preso parte. Ne abbiamo parlato con Edoardo Rossi, autore di 33 Giri e grande appassionato di musica, che ci ha raccontato come ha preso forma questo progetto per Sky e cosa aspettarci dalla nuova stagione.
33 Giri – Italian Masters ha ottenuto il rinnovo per una nuova stagione, il che è indice di qualità e fortuna di pubblico. Raccontaci com’è andata finora e che cosa possiamo aspettarci.
Finora è andata bene e siamo orgogliosi di come sta proseguendo. Ha richiesto una gestazione piuttosto lunga, ma era un progetto sul quale – con Except e Stefano Senardi – abbiamo iniziato a lavorare quasi due anni prima che potesse vedere la luce; è una grossa soddisfazione perché siamo tutti appassionati di musica, molti di noi sono musicisti (anche professionisti) e la possibilità di fare una serie di questo tipo era un nostro sogno prima di tutto come appassionati, come fruitori. Averla realizzata è stato ovviamente bellissimo dal minuto uno dell’ideazione sino a quando la si vede in onda, passando per tutte le complesse fasi della produzione, spesso piacevoli: la fase più complicata è recuperare il multitraccia del disco di cui si parla – fulcro principale di ogni episodio – e recuperare, naturalmente, i protagonisti testimoni oculari della storia che stiamo raccontando: musicisti, giornalisti e produttori legati a quel disco. Recuperare tutte queste persone non sempre è semplice, perché parliamo di prodotti che hanno già una certa età, quindi non tutte le persone sono in attività, come anche gli autori; cerchiamo allora le persone loro vicine per farci raccontare le storie nel modo più autentico possibile, col giusto margine di latenza che c’è nella capacità di ognuno di registrare i ricordi.
Il multitraccia resta l’elemento principale per realizzare l’episodio, di cui Stefano Senardi – nostro deus ex machina e curatore – si fa carico con tutte le case discografiche, dove spesso questi multitraccia non sono neanche particolarmente ben custoditi come si potrebbe immaginare, ma si trovano accatastati in magazzini, certe volte nemmeno in Italia, dove bisogna mandare addetti; certe volte nemmeno esistono più o sono comunque danneggiati.
Realizzare gli episodi è ovviamente una grande gioia, anche solo nell’essere presenti mentre si gira, perché vengono fuori tutta una serie di elementi molto emozionanti per chi come noi è appassionato di musica.

Sky Arte, che è il canale che vi ospita, è un po’ una delle punte di diamante dell’offerta di Sky come rete, contenuti e impronta produttiva. Cosa vuol dire pensare e realizzare un programma per un canale di questo tipo e come dialogate con chi vi commissiona e poi ospita all’interno del palinsesto?
Commissiona e produce, perché questa è una produzione Sky Arte, nonostante si lavori intorno a una società di produzione esterna, Except. Questo testimonia il fatto che si tratta di un prodotto cui tengono molto e hanno da subito dimostrato di volerlo. Era un progetto che tanti di noi avevano in testa e la fortuna è stata incontrarsi nello stesso ufficio e poter iniziare a realizzarlo.
Lavorare per Sky Arte è molto bello per un motivo in particolare: ci si può permettere di affrontare tutta una serie di argomenti in un modo più specifico, come ci si può permettere di fare in un canale tematico, rendendo tutto più piacevole per chi è del settore; se 33 Giri – Italian Masters dovesse andare in onda su ItaliaUno sarebbe sicuramente diverso, mentre su Sky Arte si ha la possibilità di dare qualcosina per scontato nel racconto – nell’accezione più positiva del termine -, permettendo di andare più a fondo e di parlare di elementi di cui di solito si parla un po’ meno, perché alle volte uno deve tagliare dei dettagli per permettere l’accessibilità a chi non conosce tutti gli elementi. Quando si parla di musica, se citi i Pink Floyd non hai bisogno di spiegare chi fossero e questo permette di andare “avanti veloce” e arrivare più vicini al nucleo delle storie.
Raccontaci qualcosa di te, della tua esperienza di autore e del tuo ruolo all’interno di questa produzione che, anche grazie alla tua presenza, ha avuto un piglio unico e riconoscibile, oltre a una notevole fortuna.
Io come autore nasco nel lontano 2000, partendo a Mediaset come redattore e passando poi al ruolo autoriale; la cosa curiosa è che per i primi 10 anni di lavoro non mi è mai capitato di lavorare su programmi televisivi musicali e la cosa mi è sempre sembrata perché, tutto sommato, io – essendo la musica la mia più grande passione – in quel periodo lavoravo anche con RadioFM e mi sembrava strano non riuscire a mettere insieme questi due mondi che ho sempre amato; poi, intorno al 2010 è iniziato questo trend, prima a MTv, poi a DjTv, che è quindi scaturito su Sky Arte, con Except, casa di produzione che ho conosciuto perché sapevo condivideva con me una serie di valori e aveva già realizzato programmi musicali; il giorno che ho avuto l’occasione, attraverso una mia carissima amica, di conoscerli è stato un grande piacere perché da lì, prima di 33 Giri, abbiamo potuto realizzare altre produzioni documentaristiche musicali molto belle.
All’interno di 33 Giri mi piace definirmi “uno chef” che mette insieme gli ingredienti: così come insegnano a MasterChef che il primo passo per essere un grande chef è quello di avere dei grandissimi ingredienti, beh, in questo caso ho Stefano Senardi e tutta la produzione di Except che mi aiutano ad avere dei super ingredienti; quindi io sono quello che poi deve metterli insieme: realizzo le interviste, gestisco le varie chiacchierate al mixer e poi faccio la scaletta, selezionando tutti i vari contenuti all’interno dell’episodio; è un lavoro alle volte davvero molto doloroso, perché spesso raccogliamo tantissimo materiale buono che dobbiamo far stare nella cosiddetta “ora televisiva”, che non è mai un’ora piena. Spesso mi piange il cuore a dover tagliare alcuni contenuti, ma dobbiamo essere il più fedeli possibile alla storia che stiamo raccontando.
Le docuserie in generale stanno ottenendo un notevole successo, grazie a canali come Sky Arte e a piattaforme streaming che puntano tanto a questo tipo di format. La domanda che ci si pone sempre da spettatori è quanto di “docu” e quanto di “serie” ci troviamo davanti: quanto è scripted e quanto invece è lasciato alla libertà degli ospiti e del materiale che si sta ascoltando?
Questa serie è interamente docu, perché non c’è nulla di scritto per quanto riguarda il contenuto delle interviste e il contenuto di quello che dicono gli ospiti. C’è uno script nel senso che c’è una scaletta, una struttura che viene data a ogni episodio, e c’è un mio indirizzo durante i momenti di chiacchiera libera, che equivale alle domande che faccio agli ospiti quando li intervisto direttamente; spesso potrei guidare un po’ di più, poiché potrebbe tornarmi più comodo in fase di montaggio farmi dire certe cose in un certo modo, però ci tengo a lasciare gli ospiti e gli intervistati più liberi possibile di andare a pescare nel loro cassetto dei ricordi, portandosi dietro, con le parole e con le immagini che cercano di ricostruire, anche, spero, delle emozioni.

La componente emotiva di questa docuserie è fortissima, ma la cosa veramente notevole è che essa appare totalmente naturale, per nulla cercata in fase di costruzione o “artificiosa”, proprio derivata dal materiale che andate a recuperare e a riproporre allo spettatore, oltre che agli stessi protagonisti. Come nasce la scelta del materiale, dei personaggi e dei dischi di cui parlare?
Sull’emotività vorrei giusto dire che sono felice che emerga come naturale: è una cosa che io cerco molto e a cui do precedenza, cercando di suscitarla in sede di intervista, perché molto spesso mi trovo davanti degli artisti che hanno avuto di fronte migliaia di me che gli hanno chiesto di tutto e di più, quindi spesso sono anche un po’ schermati dalla paura, o comunque dall’esperienza che hanno di trovarsi messi in difficoltà da domande scomode; con me, bene o male, non succede e se c’è dell’imbarazzo è perché magari non ricordano un dettaglio della cosa che gli si è chiesto. Però tendenzialmente cerco di fare domande che prevedano delle risposte con una parte emotiva. Nell’intervista cerco di dare precedenza a una frase detta con emotività piuttosto che a un dato freddo e numerico; ovviamente, come dicevo prima, gli ingredienti ci sono: da un lato, parlando di qualcosa di molti anni fa, che quasi tutte le persone che incontro hanno vissuto con grande “pancia” e coinvolgimento – soprattutto perché si tratta di musica – bene o male il lato emotivo c’è e sono contento che venga fuori.
La scelta dei dischi è principalmente a carico di Stefano Senardi, il nostro curatore, ed è dettata dal fatto che siano, prima di tutto, dei grandi dischi della musica italiana, anche se non necessariamente dei best seller: come definisci un disco “grande”? Ma che ne so! Siamo ascoltatori di musica, quindi ci capiamo quando parliamo di “grandi dischi”, no? Esisterebbero mille canoni per definire se un disco è grande o meno, quindi diciamo che non c’è una vera e propria legge. Devono essere grandi dischi e deve esistere il multitraccia, altrimenti l’episodio non si può fare.
Siamo partiti dai cantautori: la traccia della prima stagione era quella di concentrarci principalmente su di loro, anche perché Stefano aveva da tempo in seno l’idea di fare delle produzioni sui cantautori; con questo materiale lui è arrivato in Except e allora abbiamo espanso queste sue suggestioni. I primi episodi erano strettamente dedicati a cantautori “puri”, infatti abbiamo Dalla, De André, Pino Daniele, Zucchero, Vasco, Rino Gaetano, Gaber, ecc. Ora, pian pianino, ci stiamo aprendo anche a dischi che non siano necessariamente di cantautori, ma anche di interpreti. L’importante è sempre che siano “grandi dischi”!

Beh, è interessante che ci sia un’evoluzione, anche in risposta, immagino, a quella che può essere la reazione del pubblico. Quindi ti chiedo: cosa possiamo aspettarci da questa nuova stagione? Puoi anticiparci qualche titolo?
Non posso anticipare i titoli, ma posso dirti che vedrà la luce il 18 di novembre alle 21:15 e sicuramente sarà una stagione in cui avremo pescato, contrariamente a quanto fatto nelle precedenti, da più “ere”. Nella prima e nella seconda stagione c’erano soprattutto dischi che gravitavano tra gli anni ’70 e l’inizio degli anni ’80, poi abbiamo fatto dei piccoli excursus sui ’90; in questa stagione ci sarà davvero un’estensione temporale maggiore, con quindi contaminazioni molto interessanti: si potranno vedere dischi realizzati in modi diversi, con diversi tipi di filosofia. Ci sarà, come sempre, grande musica, grandi ospiti e, contrariamente a quanto abbiamo fatto tempo fa, avremo anche l’opportunità di sentire dischi di band. Saranno quindi episodi molto ricchi dal punto di vista musicale.

Vuoi raccontarci un qualche aneddoto della produzione?
Ti rispondo come mi rispondono tante volte gli artisti che intervisto: «sai, di aneddoti ce ne sarebbero tanti…» – e io lì vado in paranoia perché gliene ho chiesto uno… Sarò sincero: la cosa che più mi ha entusiasmato è stata la possibilità di vivere la Bologna musicale grazie agli episodi girati a Fonoprint; inoltre, un’altra cosa che mi ha colpito molto della realizzazione di questi nuovi episodi, è stata il poter girare certe volte nei posti dove gli artisti hanno registrato il disco, potendo vivere queste realtà e respirarne il profumo.
Noi ci commuoviamo spesso, perché quello che succede durante la produzione ci emoziona: ricordo le lacrime durante l’esibizione acustica di Alice che cantò Gli uccelli (voce e piano); ricordo quando insieme a Ron ascoltammo il multitraccia di Com’è profondo il mare e anche lì ci commuovemmo.
Ci sono anche, ovviamente, aneddoti divertenti: ricordo quando, con Zucchero, giocammo molto sul fatto che lui aveva fatto morire dal ridere i Memphis Horns perché lui non aveva ancora il testo di Diavolo in me e lo cantava in un inglese maccheronico; a un certo punto raccontava di aver cantato qualcosa tipo “spanking chicken” – che è diventato “spengo cicche” – e i Memphis Horns sono morti dal ridere perché significa “sculacciare i polli”. Allora, poco prima del live dell’episodio, in cui avrebbe suonato Diavolo in me, gli ho detto: «mi raccomando, Zu, eh: a sculacciare dei polli!» ed è stato bellissimo perché, mentre lui stava facendo la versione in acustico, quando dice «spengo cicche» si gira verso di me e fa un bel sorriso; ovviamente l’ho lasciato nell’episodio perché è stato un momento molto divertente e molto spontaneo che ti testimonia ancora una volta come la spontaneità, nel programma, vinca molto più dell’esecuzione super precisa.
Un altro momento pazzesco è stata l’intera realizzazione dell’episodio con Ivano Fossati, perché – come dico spesso – ogni episodio risente dell’atmosfera del disco che racconta e questo nello specifico è stato particolarmente emozionante e intimo, così come quello di Capossela mi ha riportato a sentire l’odore dei murazzi, allo stesso modo di come senti l’odore dei marciapiedi di Bologna quando parli di Quanto è profondo il mare di Dalla. Sicuramente quella di Fossati, per tanti motivi, mi ha profondamente emozionato mentre la giravamo: c’è Paolo Fresu che suona Poca voglia di fare il soldato solo con la tromba, con in sottofondo il piano di Fossati ed è uscito un qualcosa che mi fa venire la pelle d’oca solo a raccontarlo. Ma come questo, torno a dire, ci sono mille altri momenti del genere, come ad esempio Sergio Cammariere che, con batteria, basso e voce di suo cugino Rino Gaetano, suona un piano forte di pancia meraviglioso con variazioni Blues stupende. A dirti che tutto di questa produzione mi ha emozionato sembrerei banale, ma ti assicuro che mi avvicinerei molto alla verità.
Parlaci dei tuoi progetti futuri come autore.
Ne ho tanti, niente ancora di definitivo, ma spero di riuscire a mettere insieme altri progetti con Sky Arte (già scritti e ora al vaglio); mi piacerebbe poter riuscire a mettere insieme un progetto insieme all’Istituto Italiano di Tecnologia con cui c’è parecchio dialogo. Amo parlare di musica, ma la musica è solo uno dei modi che esistono per vivere di emozioni, quindi mi piacerebbe poterlo fare con altri temi, come sto facendo con i viaggi di Overland. Oltre alla musica sto quindi pensando di allargarmi, anche al di là del Motorsport di cui mi sono già occupato.
Vorrei aggiungere dei doverosi ringraziamenti, a tutta la struttura di Sky, a partire da Roberto Pisoni (direttore), passando per Sara Casotti (responsabile editoriale) e tutte le persone che magari adesso non sono più all’interno dell’azienda e che hanno lavorato a questa serie nelle precedenti edizioni; voglio ringraziare col cuore Except, nelle persone di Maurizio Vassallo e Simona Santandrea (produttrice della serie che organizza la fondamentale e complessa componente logistica). Ringrazio poi tutto il team dei montatori perché sono tutte persone molto competenti e che, con una grande sensibilità musicale, riescono a dialogare con me permettendo di realizzare episodi eccezionali; così come voglio ringraziare gli operatori e Lele Cerri (direttore della fotografia, responsabile di gran parte dell’emotività “visiva” del prodotto). Su tutti, poi, ringrazio e cito ancora Stefano Senardi, il nostro curatore, che permette che succedano cose pazzesche.
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