
Intervista a Luca Ribuoli, regista di “Speravo de’ morì prima”
Uscita il 19 marzo su Sky Atlantic e NowTV, la miniserie Speravo de’ morì prima racconta la fine della carriera di Francesco Totti servendosi della sua autobiografia Un Capitano scritta assieme a Paolo Condò. Una scelta, sicuramente insolita, quella della produzione Wildside, che però trova una sua giustificazione nel vissuto umano del capitano della Roma, come affermava Stefano Bises, head writer della serie, intervistato da Film TV (anno 29, N.11) :
All’inizio avevo molti dubbi che da quell’autobiografia si potesse tirare fuori una serie, perché Totti non è paragonabile a campioni che hanno storie complesse […] ma ha tutto sommato una traiettoria molto felice. L’unico momento in cui la storia di Totti assumeva un valore universale era proprio nel suo finale, in quella sua incapacità di smettere. Mi sembrava che proprio l’ultimo anno e mezzo della sua carriera potesse parlare davvero a tutti.
La serie si inserisce in maniera delicata in questo frangente della vita di Totti rincorrendo un equilibrio che oscilla fra il racconto e il mito. In effetti, come ci aveva detto lo stesso Totti nel documentario di Alex Infascelli, Mi chiamo Francesco Totti (2020): Totti non è più Francesco ma è diventato un monumento. Eppure il Totti che qui ci viene presentato cambia continuamente fra ironia, riflessione e gesti quotidiani; lo stato di grazia di Pietro Castellitto ci restituisce l’essenza stessa di Totti; tuttavia, la serie non ruota unicamente attorno al suo protagonista ma tutto il cast partecipa in maniera armoniosa alla narrazione, con una nota particolare per la straordinaria interpretazione di Ilary da parte di Greta Scarano.
Ci si trova dinanzi ad un inaspettato dramedy esistenziale in cui l’eredità di questo personaggio immenso per i suoi tifosi ci viene restituito attraverso il patrimonio popolare. La regia si basa su un perfetto mix fra invenzioni e immagini storiche ricostruite, trovando il giusto registro per ogni personaggio e per ogni momento.
Abbiamo avuto il piacere di intervistare il regista Luca Ribuoli.
I veri protagonisti della serie potrebbero essere il tempo e la nostalgia che ne deriva, come se dietro al rapporto di Francesco Totti con la Roma potesse celarsi una sorta di archetipo del rapporto di chiunque con la fine.
Sì, è quello che abbiamo cercato di raccontare. Partendo da un’idea di Stefano Bises e di Michele Astori, autori del soggetto, dovendo sintetizzare il racconto del libro (Un Capitano, Rizzoli 2018, NdR) e cercando, in qualche modo, un’antagonista si era capito che l’unico che Totti aveva realmente avuto nell’ultimo periodo era, in effetti, Spalletti che gli aveva reso la vita un po’ più incerta per una serie di incomprensioni reciproche. E tuttavia, Spalletti portava in questa narrazione del tempo l’esigenza di una necessaria risoluzione da parte del giocatore; c’era qualcosa di evidente nel loro scontro quasi come se entrambi giocassero su questo “non è più il tuo tempo”. Il tempo, quindi, è proprio protagonista di questa trama anche perché ragionando sugli elementi in campo chiunque, anche se non romanista, aveva seguito quel cerimoniale allo stadio e quell’esperienza lì dava il peso definitivo alla narrazione che volevamo realizzare. Si tratta del tema comune a molti grandi sportivi che hanno alimentato le nostre domeniche e che noi abbiamo amato al punto che vorremmo non smettessero mai. Però è un tema che può declinarsi anche nel mondo del cinema: una volta, un mio collega mi disse che parlando con un maestro del cinema, questi gli raccontò di un incontro particolare con un ammiratore e del loro dialogo:
– Guardi, sono un suo fan…
– Sì, ma per quali film?
E lui gli elencava soltanto i film dell’epoca precedente del lavoro di questo maestro, non citando gli ultimi.
– Ma gli ultimi non ti sono piaciuti?
E lui non sapeva rispondergli, facendo comprendere a questo regista dell’esistenza di cose che, purtroppo, non sopravvivono e disse: “Ho capito che il maestro non sa più quando non è più maestro”. Una cosa difficile da dire, no? Il dover accettare la fine ad un certo punto: quella cosa lì che ami così tanto non puoi più farla, quasi come se non riuscissi più a farla come una volta. Questo è il grande tema che raccontiamo.

Proprio questo tema rende la serie quasi una tragedia mascherata da commedia grazie all’autoironia del suo protagonista. Eppure il suo dissidio interiore è controbilanciato soprattutto dalla figura di Ilary che rappresenta l’aspetto razionale della vicenda: è lei che lo sprona a concentrarsi sulla ricchezza della vita oltre il calcio. Ne deriva un Totti diverso, più riflessivo, quasi inedito: in ciò risiede la differenza principale con “Mi chiamo Francesco Totti” di Alex Infascelli (2019).
Sì, infatti. Come ho detto anche altre volte a me ha tranquillizzato molto la visione del documentario perché io non sapevo che strada avesse preso Infascelli e mi sono reso conto che giocavamo due campionati diversi: l’epica l’aveva presa lui perché aveva il materiale (partite, voce narrante dello stesso Totti) mentre io non volevo assolutamente riscostruire le partite: come riproporre le giocate di Francesco Totti? Sarebbe stato assurdo; era una sfida improponibile soprattutto perché avrebbe richiesto tutta la mia concentrazione, sottraendola al racconto nel quale risiedevano molte più possibilità di arrivare al pubblico. A preoccuparmi era il fatto che avesse preso quella che sarebbe stata la nostra strada.
Anche per il tragico velato di cui parlavi abbiamo dovuto trovare un equilibrio dal momento che il nostro tragico doveva sempre basarsi sul fatto che lui è un campione molto stimato, molto amato anche come persona, e che ha sempre nel cuore i suoi tifosi e la gente normale, che nel calcio vedono una valvola di sfogo; per cui, ho sempre cercato di rendere sottile il tragico perché è comunque un giocatore che ha avuto tanto per cui non potevo trattarlo come un tragico tout court ma con dei toni sfumati, sì. Mi ricordo che quando si costruiva ancora la sceneggiatura c’era una scena che poi Bises ha messo nell’ultimo episodio che ho trovato pertinente: quando lui va in questo ospedale a salutare questi bambini malati e lì si avvertiva il peso di quale fosse la vera tragedia umana. Il suo era solo un problema per cui è giusto starci male, magari ci si logora e ci si rovina ma è sempre una bazzecola rispetto alle cose vere della vita. Anche su questo aspetto ci sembrava che l’ironia o il surreale fossero giuste per trattare questa materia: il non poter giocare andava raccontato nella giusta dimensione.
La dimensione umana di Totti è rintracciabile anche nel ritratto leggero da voi realizzato della sua famiglia, in particolare dei suoi genitori e per mezzo di alcuni dettagli tratti dagli stessi racconti di Totti e di Condò, come il mangiarsi le unghie e l’amore per le carte. In aggiunta, nel citazionismo filmico di altri eroi dell’immaginario collettivo avete voluto esprimere l’uomo Totti, basti pensare al paragone con Rocky Balboa idolo delle folle di Philadelphia e a “L’attimo fuggente”. Nonostante la grande popolarità è una vita lontana dai riflettori, una vita semplice grazie ad un cast in stato di grazia. Come avete ottenuto una caratterizzazione di questo livello?
Dipende. Pietro Castellitto, un talento assurdo, poteva attingere dalle migliaia di interviste, di spezzoni post-partita e partecipazioni in tv; io, che ho potuto conoscere Francesco Totti prima di lui, cercavo di incentivarlo a cambiare alcune sue cose; inizialmente parlava molto lento, molto rarefatto nei provini e nelle prove. E io gli dicevo che Totti non era così: è molto loquace; quello che conosce la gente è un Totti che è quello delle dichiarazioni (che in 25 anni si sono evolute). Ho puntato su questo aspetto; ovviamente Castellitto all’inizio si sentiva di rappresentarlo secondo il sentire comune mentre io spingevo per il contrario: noi avevamo un’occasione unica questa volta, quella di raccontare quello che la gente non sa. Proprio perché andavamo in casa sua avevamo delle opportunità per scoprire un punto di vista su Totti e sulla sua famiglia che approfondisse delle cose o che addirittura completasse delle cose che il pubblico ignora.
La cosa migliore, la più bella, che noi potevamo aspettarci alla fine è, come ha dichiarato lui stesso in una conferenza stampa, che vedendo questa serie lui ha compreso qualcosa di sé che non conosceva. Questo è stato il traguardo della sfida che avevo richiesto ai miei attori: di immedesimarsi in questi meccanismi di racconto per esprimere i sentimenti reali di Francesco Totti. Quando leggemmo la sceneggiatura ci disse che fra lui e il figlio non c’erano tutte quelle parole: noi avevamo, per esempio, un dialogo di due pagine mentre fra i due sono gli sguardi a parlare e qualche domanda del tipo “che stai a dì?”, “che hai fatto?” però il senso era esattamente quello. Ci disse che quelle parole in sceneggiatura sarebbero quelle che si direbbero se avessero il coraggio di farlo.
Ovviamente in una costruzione come quella della nostra serie si ha bisogno di scene madri per far comprendere ciò che i personaggi provano e come si relazionano fra loro; quindi, un po’ questo è stato l’atteggiamento nei confronti della caratterizzazione.
La serie è disponibile on demand su NowTV e periodicamente su Sky Atlantic. Ecco il trailer:
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