
“Yellowstone” stagione 2 – Tornano i cowboy del Montana
La seconda stagione di Yellowstone fa un salto di qualità e lo capiamo dall’episodio di apertura: un decollo decisamente tra i migliori, all’insegna di un parola centrale per il mondo dei cowboy che sarà il mantra dell’intera season: azione. Se la prima stagione ci è piaciuta, ma abbiamo sofferto per i troppi elementi descrittivi che, seppur ben fatti e necessari, hanno tolto troppo spazio ad un genere che basa una buona parte del suo fascino sulla violenza, ora non possiamo proprio lamentarci. Yellowstone 2 cattura subito l’attenzione dello spettatore e soddisfa ampiamente la sua sete di pestaggi, in linea con il genere in cui si identifica, il western moderno proprio del suo regista e sceneggiatore, Taylor Sheridan.

Con un Kevin Costner sempre impeccabile nel ruolo di autoritario padre con rimorsi, ma soprattutto cowboy navigato, il cast non smette di sorprenderci e ci aiuta a mettere ancora più a fuoco personaggi e dinamiche messi sul banco nella prima stagione. Nuovi elementi vengono a galla, vecchi nodi si sciolgono e ci permettono di apprezzare di più le interazioni tra i personaggi, che acquistano una maggiore tridimensionalità soprattutto grazie al racconto delle loro vicende passate. Incomprensibile la scelta di tagliare il flashback sull’infanzia di Rip (Cole Hauser): la scena piuttosto violenta e presente nella versione americana, contribuisce a dare forma a uno dei personaggi meglio scritti; la troveremo nella terza stagione?

Uno dei punti di forza della serie è costituito dagli scambi, sempre graffianti e diretti, corredati da lapidarie e inappellabili stoccate che lascerebbero senza possibilità di replica i migliori avvocati. Paradossalmente, l’unico avvocato della serie è anche il più scarso in ambito comunicativo: Jamie (Wes Bentley) è ancora un personaggio da scoprire; tra le violenze – per ora – ingiustificate della sempre sopra le righe Beth Dutton, e l’impossibilità di farsi capire dal padre, la storyline di Jamie rimane ancora in ombra e al personaggio non viene resa giustizia: stufo di non essere compreso, l’avvocato di famiglia sembra paralizzato in una situazione di silenzio, dato dalla sua incapacità di essere tagliente e incisivo, non perché non sia in grado di esprimersi, ma perché atrofizzato della sua funzione, in un’inettitudine indotta che si riversa in comportamenti equivoci ed estremi. Da chiarire, probabilmente con la prossima stagione, la malevolenza di Beth – un personaggio qui davvero difficilmente sopportabile e poco credibile, ma interpretato con intensità da Kelly Reilly – nei confronti del fratello: attualmente la questione ha rappresentato un buco di trama, ma potrebbe – dovrebbe – essere approfondito in seguito.

Della prima stagione restano molti elementi positivi, come l’attenzione per lo spazio, le tossiche dinamiche familiari e i caratteri rudi dei mandriani, caratteristiche assolutamente vincenti: nel Montana regna la legge del luogo, omaggiato sempre con affascinanti e intelligenti riprese che esaltano le qualità proprie di un territorio emblematico ed evocativo, quasi mitico nel suo essere difficilmente addomesticabile e che rispecchia totalmente l’etica e la personalità dei cowboy che lo vivono.
Le dinamiche famigliari rimangono il cuore pulsante dello sviluppo drammatico: i figli di John Dutton continuano a lottare per il ranch, non perché lo considerino un bene in quanto proprietà, ma piuttosto perché rappresentativo, simulacro di identità e rapporti che viaggiano costantemente sul filo del rasoio. Essere amici e nemici paradossalmente è solo questione di pochi metri in questo sconfinato territorio e le trappole più insidiose sono quelle che si trovano nella propria casa, che, come abbiamo avuto già avuto modo di capire, ha la duplice valenza di trappola esistenziale e luogo doloroso di memoria.

Se lo sviluppo globale sembra funzionare in una ferrea coerenza che ci lascia soddisfatti, il finale, purtroppo, cala leggermente. Appare frettoloso ed esagerato e lascia con un po’ di amarezza, soprattutto perché rimangono pochi elementi per capire come si potrà sviluppare la stagione successiva. Un finale teso, violento e roboante, in un fuoco d’artificio che è solo spari e rumore, ma di cui facciamo fatica a cogliere un senso profondo. Ma forse un senso profondo non serve: l‘anima di questa serie fortemente americana è pirotecnica, energica e franca, aldilà di significati che non vanno ricercati, mira ad un puro intrattenimento di genere e anche se lo spessore risulta assottigliato e reso ambiguo dalle molteplici incoerenze morali e caratteriali dei personaggi, sa fare il suo dovere e ci tiene incollati agli sviluppi narrativi.
Fortunatamente, non dovremo aspettare troppo: sembra confermato che la terza stagione (distribuita questa estate negli Stati Uniti) potrà essere visibile su Sky e Now Tv già dall’inizio del 2021.
Dal 2015 Birdmen Magazine raccoglie le voci di cento giovani da tutta Italia: una rivista indipendente no profit – testata giornalistica registrata – votata al cinema, alle serie e al teatro (e a tutte le declinazioni dell’audiovisivo). Oltre alle edizioni cartacee annuali, cura progetti e collaborazioni con festival e istituzioni. Birdmen Magazine ha una redazione diffusa: le sedi principali sono a Pavia e Bologna
Aiutaci a sostenere il progetto e ottieni i contenuti Birdmen Premium. Associati a Birdmen Magazine – APS, l‘associazione della rivista