
“Semina il vento” di Danilo Caputo – Ambientalismo e parassiti sociali
Semina il vento, ultimo film di Danilo Caputo, presentato all’ultima Berlinale, narra di ambientalismo, di parassiti contro cui combattere e infine, di una giovane donna. La vicenda si svolge nella provincia di Taranto: Nica è una studentessa di agronomia e sta tornando a casa dopo tre anni di assenza. Scopre che gli ulivi della sua terra sono infestati da un parassita che li sta uccidendo. La giovane si decide a trovare una soluzione per salvare l’uliveto di famiglia. Ambientalismo, lotta, ascolto: la silenziosa risolutezza della protagonista e la sua dedizione hanno una nota di predestinazione epica che ci lega ai suoi propositi, scena dopo scena. In Semina il vento, Nica cerca un antagonista invisibile, un segno meno che riporti lo stato delle cose alla naturalità del loro processo biologico. Vento caputo ambientalismo

È alle sue stesse origini, che Nica dovrà guardare; alla generazione precedente alla sua, vinta, rassegnata e pronta a speculare sul disastro ambientale pur di tirare avanti. “Nica, qui c’è gente che sta in inquinata in testa”: vale a dire che il problema ambientale è da considerarsi un problema prettamente sociale e umano; Non c’è niente di più esatto: “Vivi e lascia vivere” è il mantra rassegnato della madre; il padre passa le giornate al bar, si lamenta con le istituzioni, boccheggia rancore e apatia.
Il ruolo del genitore è privato di autorevolezza e dignità: il padre non si limita a sottomettersi alla debole e cinica accettazione dello stato delle cose, ma tenta di avvallare il dramma, di trarne profitto. Nica invece è responsabile e pratica, ha coraggio, semina vento e raccoglie tempesta. Non fugge, tenta di riscattare il passato per salvare il futuro. La generazione degli adulti, non protagonista, non antagonista, forse troppo abbozzata nella sua meschinità, è però da considerarsi simbolica di un atteggiamento di accettazione passiva sempre più attuale e nocivo. In Semina il Vento, sono loro i parassiti sociali, gli antagonisti fisici all’ambientalismo.

Pedinato per tutta la narrazione dalla macchina da presa di Caputo, il volto silente della protagonista si incastona nei primi piani domestici e cerca un orizzonte, trovato nel fuoricampo del microscopio. L’interpretazione di Yile Yara Vianello è sottrattiva e centripeta: Nica ascolta più che parlare, sente il lamento interno degli ulivi secolari, assaggia il sapore della terra; soffre con e per la natura. Ma questa Giovanna D’Arco a colori non è mai passiva nella sua sofferenza. È tenace nella ribellione al sentimento rassegnato della sua terra, alla legge deviata della generazione dei padri, come lo è l’Antigone di Sofocle. È un’eroina ribelle, personaggio attuale che ammicca all’immaginario della stregoneria, della furia antica.
Quella di puntellare la narrazione con richiami al soprannaturale è una scelta suggestiva, che intensifica l’identificazione e colora di tinte fantastiche questa storia così quotidiana e attuale. Riesce a restituire un senso di tenerezza per uno schema sociale ancora troppo ancorato a credenze e superstizioni. Una tenerezza però ambigua: un legame alle origini che è anche presagio di morte, di resa. Perché la calcificazione delle credenze popolari è una falda acquifera inquinata: stimola l’inerzia e soffoca il futuro.
Lo stile visivo di Caputo è asciutto e tende ad assentarsi: più stretto e soffocante nell’immobilismo delle mura domestiche, negli esterni diventa più arioso e lascia respiro alla bellezza dei paesaggi pugliesi nei quali si immerge la protagonista. Alle sue spalle, incombe suggestiva l’ombra mortifera degli ecomostri, dell’ILVA, delle industrie, qui rese fondali apocalittici, parassiti industriali. L’essenzialità del dato visivo ritrae l’abbandono dei luoghi, animati dalla solitaria determinazione di Nica, sempre più simbiotica col paesaggio. Agguerrita come la Nausicaä della Valle del vento di Miyazaki, la giovane si fa custode della secolarità del passato più remoto, contro la mancanza di prospettive di quello più prossimo.

Questa è un’opera che seppur acerba in alcuni dialoghi, riesce a non essere mai banale e a ritrarre con credibilità e senza caricature uno stato d’animo giovanile più che mai attuale. In Semina il vento di Caputo, si guarda all’ambientalismo come unica via possibile contro parassiti di ogni tipo, in una parabola ottimista ma mai superficiale. Caputo intercetta l’urgenza di un cinema che guardi al concreto e che metta in scena le esigenze della realtà giovanile, troppo spesso relegata ad una rappresentazione sdraiata e da commedia. Nel cinema d’autore contemporaneo sta nascendo una seppur timida, evidente necessità di trattare temi legati all’ambiente anche al di fuori del genere documentario (Antropocene) o di quello della commedia con tratti iperbolici o surreali (La Donna Elettrica, Okja). Qui sta la forza di Semina il Vento: da un lato aver saputo trattare l’urgenza attuale e sociale dell’ambientalismo senza svilire la fiaba, senza soffocare il potere immaginifico del cinema, dall’altro riuscire a far godere lo spettatore con una parabola appassionante senza risultare generico o declamatorio, grazie alla specificità di un qui e ora preciso ed esemplare.
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