
Rifugio, speranza, comunità – Su teatro e coraggio con il MaMiMò
È un rito antico che rende comunità, il teatro. Così si apre la mia chiacchierata con Angela Ruozzi e Marco Maccieri, direttori artistici del Centro teatrale MaMiMò di Reggio Emilia. Per chi non fosse mai stato nei paraggi (dalle mie parti si direbbe: in col a’d Rès), il MaMiMò ha sede in una sala in pendenza, cubicolare – il Teatro Piccolo Orologio – dove la vicinanza collettiva dello spettacolo è accresciuta dagli scarsi centimetri tra un sedile e l’altro. Impossibile, nel buio della performance, non sentirsi l’uno parte dell’altro. Durante il lockdown di questa primavera, tale senso di rassomiglianza rischiava di perdersi per strada. La risposta del MaMiMò alla sfida della pandemia è stata chiara, decisa: adattarsi, rinnovarsi, imparare, e portare avanti quello che di, obliquamente, buono era capitato in quei mesi un po’ da pièce dell’assurdo. E ce lo siamo fatti spiegare proprio da Angela e Marco.
Ciao Angela e ciao Marco, grazie mille per aver accettato questa possibilità di intervista. Innanzitutto, una domanda doverosa: come sta, oggi, il MaMiMò?
(ridono)
Sta che siamo ostinati, e rimaniamo aperti e pensanti, sfidando i venti contrari. Sono stati mesi di evoluzione continua, ma lo scopo di MaMiMò, come poi pensiamo sia lo scopo di tutto il teatro, è creare comunità, radicarsi, offrire diagnosi e sublimazione delle paure di una collettività. La scena aiuta, ha una funzione terapeutica. Proprio per questo risulta ancora più grave l’atteggiamento di sostanziale indifferenza che le istituzioni italiane hanno rivolto al mondo della cultura durante il lockdown.
Sfrutto subito questa imbeccata per una domanda che mi sta molto a cuore: mancando una forte azione aggregante dall’alto, si è invece riuscito a fare gruppo “dal basso” nelle compagini teatrali italiane?
Di sicuro si è risollevato il bisogno di sentirsi parte di uno stesso gruppo a livello di professionisti del settore, serviva una forza centripeta che invece mancava. A parte un sentimento generale, però, le iniziative sono state affidate allo spirito dei singoli, si è applicata una sorta di legge di sopravvivenza. Eppure, per quello che abbiamo visto, molte iniziative si fermavano al livello della superficie estetica, senza andare a toccare temi più profondi. Quello che volevamo fare noi, invece, non era offrire un passatempo, ma creare qualcosa che sapesse rispondere a delle necessità profonde. Di sicuro auspichiamo che questo serva da lezione per tutti noi, e che si torni a fare teatro con più consapevolezza della nostra comunità artistica e di come la nostra arte nasca nell’ipoteticità che contraddistingue la speranza. Sarebbe bello se la questione si sviluppasse non solo sul piano artistico, ma anche politico.
E la guida della speranza, dove ha portato in questi mesi il MaMiMò?
Abbiamo ragionato un sacco tra di noi, siamo stati per mesi in un brainstorming costante. Alla fine abbiamo anche aperto un sito internet per raccogliere tutti i progetti che avevamo partorito e aggiornare i seguaci del teatro sui relativi sviluppi…qualcosa si è arenato, mentre altre cose sono andate in porto. MaMiMò OnAir, per esempio, la radio che abbiamo aperto durante il lockdown, vivrà ancora per trasmettere incontri e interviste. Altra idea da lockdown che ha preso vita è quello di uno spettacolo modellato sui videogiochi, interattivo e all’aria aperta.
Il MaMiMò nasce soprattutto come teatro di comunità. Dovendo mancare, anche nei prossimi mesi, il contatto stretto con la platea, che cosa avete escogitato?
Il Teatro Orologio, sede del MaMiMò, è incredibilmente intimo, e proprio per questo il distanziamento sociale lo rendeva un po’ spettrale. Quindi, per i prossimi mesi, abbiamo deciso di realizzare una stagione itinerante, andando a occupare (in senso positivo) spazi che normalmente non sarebbero adibiti a teatro. Non potendo la comunità venire da noi, abbiamo deciso di andare noi in mezzo alla comunità con una stagione diffusa. L’obiettivo è anche quello di immergere gli spettatori nella sensorialità visiva e acustica delle location, creare delle isole felici. Per questo abbiamo chiamato questo ciclo “Rifugi”: vogliamo creare spazi privilegiati in cui pensare e combattere la semplificazione a cui porta la paura. Insomma, l’anno scorso tutti parlavano di Salvini, ora si parla solo di Covid, e basta! Noi vogliamo generare complessità.
C’è quindi davvero qualcosa da imparare da questi mesi di incertezza e sospensione?
Durante il lockdown sperimentavamo tantissimo, e da lì ci siamo dati un motto che crediamo ci accompagnerà per molto tempo: “il fallimento è un’opzione”. La creazione salva dalla fragilità dell’esperienza quotidiana, ci permette di costruire mondi possibili e basati sulla relazione tra persone invece che su paura e divisione. È un momento di precarietà storica, ma certe cose rimangono sempre, basta saperle curare. E il teatro, noi crediamo, è una di queste.
Viva il teatro, viva il MaMiMò!
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