
Il rito teatrale di Serena Sinigaglia per ridare vita a Pavia – Intervista
98 giorni, è questo il titolo dato da Serena Sinigaglia al rito ideato per celebrare la riapertura del teatro a Pavia. 98 i giorni di chiusura imposti al mondo dello spettacolo, 98 gli spettatori coinvolti, 98 i lavoratori teatrali necessari per dare vita a questo rito collettivo e partecipativo.
Un evento ibrido – in parte rito laico, in parte documentario – fortemente voluto da Francesca Bertoglio, direttrice della Fondazione Teatro Fraschini, e capace di coinvolgere più di 30 realtà attive a Pavia in ambito culturale e sociale. Un rito di riapertura, ma non solo: una performance che coinvolge spettatori e spettatrici, lavoratori del mondo dello spettacolo e l’intera città di Pavia, senza dimenticare chi al rito non può assistere. Teatro e cinema coesistono e si completano riuscendo a valorizzare il processo partecipativo e la dimensione dell’incontro con il rito e, al tempo stesso, a farsi carico della necessità di trasmettere una memoria, attraverso il documentario che lo immortala (per la regia di Elvio Longato).
Tre le fasi di questo rito che vede Pavia protagonista grazie alla lungimirante collaborazione tra Serena Sinigaglia e la Fondazione Teatro Fraschini. Raccontare lo svolgimento del rito equivale a svelare la trama del documentario, ma parteciparvi, vivere quell’atmosfera di fibrillazione nei luoghi simbolo di Pavia è tutta un’altra storia.
Un rito nato da questi presupposti non poteva che avere inizio al Teatro Fraschini che, nel prologo, appare deserto e in stato di totale abbandono: sedie spostate, cavi che spuntato da tutte le parti, attrezzi abbandonati sulla scena. Nel silenzio compaiono alcuni tecnici elettricisti che attaccano come possono alcuni fari: vogliono illuminare un trombettista che, solo sul palco, di fronte a una platea vuota, inizia a suonare La Strada di Nino Rota. Piano piano, quasi rispondendo a un richiamo atavico, iniziano ad affacciarsi dai palchetti tutti quegli affascinanti personaggi che il teatro ci ha insegnato ad amare: Pierrot, Arlecchino, Lady Macbeth… 40 figure teatrali archetipiche riemergono da un teatro addormentato. Intanto, sulla scena, si è radunata una banda, dalla platea avanzano trampolieri, circensi e danzatori, dalle quinte sbucano sarti, costumisti, scenografi e tecnici di scena. I musicisti si avviano verso l’uscita e dietro di loro si crea un corteo festoso e colorato che sbuca in strada incantando i passanti per poi disperdersi in tutta Pavia. I lavoratori del mondo dello spettacolo sembrano dire: il Teatro è chiuso? Invadiamo la città con le nostre arti!

Ritroviamo i nostri attori in luoghi simbolo di Pavia: biblioteche, musei, cortili dell’Università, spazi del Comune, RSA e centri diurni, solo per citare alcuni esempi, a dare conto della natura sfaccettata e multiforme delle comunità che abitano la città. Gli attori arrivano in costume e recitano la poesia Nove Marzo Duemilaventi di Mariangela Gualtieri scritta durante la pandemia. Le incursioni di questi bizzarri personaggi si trasformano in momenti di spontanea condivisione a mano a mano che gli attori dismettono i costumi e si rivelano persone comuni che durante l’emergenza sanitaria hanno sofferto, come tutti.
Il momento finale del rito ideato da Serena Sinigaglia ha luogo la sera nel Castello di Pavia dove i 98 spettatori e i 98 lavoratori del mondo dello spettacolo si presentano, seguendo le indicazioni della regista, elegantissimi: tutti (trampolieri compresi) sfoggiano il loro abito scuro migliore, come nelle occasioni speciali. Una scenografia realizzata con rami dipinti d’ocra (tinta fortemente evocata dalla poesia di Gualtieri) accoglie il pubblico nel cortile del Castello. Qui si svolgono azioni semplici, ma grandiose nel loro essere condivise da spettatori e addetti ai lavori, in un’atmosfera che canti e danze, alternati alla poesia Nove Marzo Duemilaventi, rendono intensa e suggestiva. È un monito alla responsabilità misto a un desiderio di stare insieme in serenità quello che echeggia nel silenzio mentre i trampolieri fanno volare via 200 palloncini ocra.
Alla vigilia di 98 giorni abbiamo intervistato Serena Sinigaglia, ecco cosa ci ha raccontato del rito che ha rianimato Pavia e di come il teatro possa prendersi cura di una comunità ferita.

Un rito è un momento di passaggio per una comunità e segna sempre un cambiamento. Com’è nata l’idea di questo rito e quali sono le aspettative e le necessità che vi hanno portato a elaborare questo tipo di progetto?
Va dato atto alla direzione del Teatro Fraschini di averci affidato una commissione che definirei straordinaria, esattamente come straordinari sono i tempi che stiamo vivendo (in particolare noi lavoratori del mondo dello spettacolo). La premessa di tutto questo lavoro, quindi, è il desiderio del Fraschini di riaprire con un evento importante, con la consapevolezza che per fare qualcosa di universale è necessario lavorare tantissimo nel particolare. Tutto nasce dall’intuizione iniziale di individuare nel territorio pavese 34 luoghi di socialità legati alla cura della persona (come scuole e RSA) – che corrispondono ad altrettante comunità – che negli ultimi mesi hanno vissuto attimi davvero drammatici e dalla scelta di portare in dono a queste realtà colpite la poesia di Mariangela Gualtieri Nove Marzo Duemilaventi.
Francesca Bertoglio, direttrice della Fondazione Fraschini, mi ha chiamata e mi ha proposto di trovare un mondo per rendere questo evento attraverso una narrazione. Quindi io ho scritto una storia lavorando su due piani. Anzitutto l’ibridazione dei generi, che è quanto mai necessaria in questa emergenza, perché, dato che grossi assembramenti non si possono fare, sentivo la necessità di lasciare una testimonianza di questo evento teatrale che fosse anche cinematografica. Per questo ho scritto un copione teatral-cinematografico. E, in secondo luogo, il desiderio di onorare le vittime e tutte le persone che hanno sofferto, celebrando quindi anche il mestiere più antico del mondo che è quello dei lavoratori dello spettacolo.
Il rito, come ogni rito, ha delle fasi di azioni condivise accompagnate da canti, danze e giochi di luce. Quello che abbiamo ideato è un rito laico per vivere una catarsi collettiva, condividere emozioni e metabolizzare traumi; è un esempio della più antica forma di narrazione del fatto che del teatro abbiamo bisogno come il pane. Le ragioni che ci hanno guidato sono onorare le vittime e chi ha sofferto, ma anche celebrare i lavoratori del mondo dello spettacolo la cui condizione, che già prima del lockdown era di grande incertezza, successivamente è diventata, a tratti, decisamente tragica (visto che siamo il Paese al penultimo posto in Europa per investimenti nella cultura). Quindi io lo considero anche un atto d’amore per il mestiere che faccio.

Francesca Bertoglio, direttrice della Fondazione Fraschini, in questi mesi, così difficili per il mondo artistico, ha più volte sottolineato l’assoluta importanza della cultura e dell’istruzione per una società sana. Per realizzare questo rito è stato necessario dialogare con le comunità di Pavia: come si è svolto questo incontro e come hanno reagito gli abitanti a questa situazione eccezionale?
Benissimo, non c’è stata nessuna diffidenza. Non mi stupisce perché io credo che il popolo sia sempre più avanti dei propri politici, e poi il teatro è qualcosa di talmente umano che rarissimamente lascia indifferenti. Poi credo ci sia anche un forte desiderio di avere momenti di divertimento e condivisione che solo il teatro e l’arte possono realizzare, perché lavorano in compresenza. Immagina cosa può voler dire per l’utente di una comunità psichiatrica, dopo mesi d’isolamento, veder arrivare un Pierrot vestito di tutto punto che gioca con lui e pian piano si trasforma in una persona come tante: è un incontro, ma è soprattutto un dono. Le persone hanno voglia di cultura e quando sembra che non sia così è solo perché ancora non lo sanno. Io sono 25 anni che faccio questo mestiere e so che, se si vuole raggiungere gli ignoranti e gli spaventati, alla fine vince il lavoro sul territorio. E più siamo ignoranti e spaventati, più è necessario lavorare sul particolare e il teatro ci aiuta in questo: oggi il teatro è molto più importante per noi di quanto non lo fosse l’opera di Shakespeare per la Regina Elisabetta. Perché oggi il teatro non è solo lo spettacolo, ma è un processo di coinvolgimento delle comunità: questo fa il teatro. Certo, fa anche lo spettacolo, ma è solo una minima parte di un incontro molto più ampio.

Nella presentazione inviata al pubblico partecipante, si legge «Saranno i lavoratori del mondo dello spettacolo a farvi da Virgilio», è necessaria dunque una mediazione per comprendere e vivere in profondità il teatro? Da spettatrice mi è spesso capitato, di fronte a uno spettacolo che non capivo o di cui non coglievo il senso, di sentirmi “lasciata sola”, senza guida, è possibile che questo sia un limite nell’avvicinare nuovi potenziali pubblici?
Quando si va a teatro, non ci dovrebbe essere bisogno di avere un “Virgilio”, lo spettacolo stesso dovrebbe parlare forte e chiaro a chi lo vede, se questo non accade, vuol dire che si tratta di un brutto spettacolo. In tanti realizzano sculture, ma c’è un solo Michelangelo ed è necessario che ci siano tanti artisti, perché non è mai accaduto, in epoche in cui c’era oscurantismo e le arti erano impedite, che sbocciassero grandi talenti: i grandi talenti sono sempre figli di un’epoca fertile.
I Virgilio presenti nel rito sono figure di tipo diverso perché anche gli spettatori sono attori e allora io non posso buttare sulla scena 98 persone senza prenderle per mano: cerco, in tutti i modi, di guidarle e farle sentire a proprio agio. Per quanto riguarda il fatto di avvicinare un nuovo pubblico dobbiamo anzitutto sfatare questo mito un po’ elitario, che spesso è associato all’andare a teatro, che fa sì che il teatro sia visto da molti come quel luogo in cui vado e mi annoio. Sta a noi fare spettacoli che sappiano parlare al pubblico, stando al passo con i tempi, ma soprattutto è necessaria la consapevolezza del fatto che, oggi più che mai, lo spettacolo è solo una parte dell’incontro ed è quello che devo rendere visibile.
E questo rito teatrale è riuscito perfettamente nell’intento!
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[…] Mariangela Gualtieri nasce nella compagnia come attrice. A seguito della proposta di Cesare Ronconi inizia poi a dedicarsi alla scrittura e alla poesia che scoprirà essere “la sua cosa in questo mondo”. Lei stessa dichiara di avere una fiducia profonda, forse ingenua, nei confronti della parola. La parola è ciò che ci distingue dagli animali e può essere vista come il centro del cammino degli uomini verso la bellezza. I suoi testi sono spesso creati su misura per performance già in parte formate, sono parole scritte, ma nate per l’oralità. Nel momento della scrittura la poetessa si fa tramite di un libero fluire di qualcosa che si è accumulato nella sua persona, quasi dando voce a ciò che lei non è, ma che in lei risiede. […]