
Paranoia Agent: Kon Satoshi e il Grande Sonno giapponese
Una ragazza appare sullo schermo di un computer, dei piatti pieni di cibo davanti a lei, che mangia, mentre l’occhio della macchina osserva, registra, trasmette. Al capo opposto dell’etere, altri occhi fissano altri schermi nei loro monolocali, rapiti. È ora di cena, e sembra un anime di Kon Satoshi, dove la vita accade attraverso lo specchio di uno schermo digitale. Nella prospettiva del monolocale, la ragazza che mangia è più reale della cena di cui si sta, o non si sta, fruendo. Tramite questa ridefinizione ontologica, il consumatore solitario trova oblio, per la durata del video, del proprio qui-ed-ora storico. L’audience di questi spettacoli Mukbang (“show dove si mangia”) condivide un tratto fondamentale con i personaggi degli anime di Kon: il perseguire uno stesso obiettivo, l’assoluzione dalla propia esistenza. Per farlo, cercano di dimenticar-si. E, in Paranoia Agent (2004), unica serie di Kon, per dimenticare basta essere colpiti alla testa dalla mazza di un misterioso Giovane Battitore su pattini in linea gialli.
La trama di Paranoia Agent è, allo stesso tempo, semplice e intricatissima. Nella Tokyo contemporanea, un misterioso ragazzino su pattini armato di mazza da baseball inizia a mietere vittime. Veste un terrificante ghigno sghembo, e porta un cappellino cin la visiera calata sopra gli occhi. Ribattezzato Giovane Battitore per via del suo aspetto fisico e l’impossibilità di individuare la sua identità, il Battitore prende di mira quelli che si trovano con le spalle al muro. Per questo, si definisce un salvatore, dacché l’aggressione sottrae – momentaneamente o, se mortale, definitivamente – l’interessato alle proprie responsabilità sociali. Il Battitore porta oblio. Lo si teme e lo si invoca. Sul suo conto girano certezze di comari e sconcertanti verità poliziesche.
Per comprendere le motivazioni del Battitore, il detective Ikari Keiichi e la sua spalla Maniwa Mitsuhiro devono calarsi al confine tra due mondi, nel limbo di interpretazione in cui riposa il Battitore e dove l’oggettivo si accavalla con il soggettivo. Kon apre molteplici cornici di finzione narrativa, riassumendole – e risolvendole – nella finzione stessa. Chiave per svelare il mistero del Battitore, e per portare Paranoia Agent a una compiuta conclusione, è infatti un altro personaggio limbico, parassita anch’esso dei bisogni e dell’immaginazione dei protagonisti: Maromi, adorabile cagnolino rosa “scacciapensieri” creato dalla designer Sagi Tsukiko, prima vittima del Battitore.
Attraverso il legame Battitore-Maromi, Kon mette alla berlina l’industria dell’intrattenimento, e lo fa inscenandone letteralmente effetti e presupposti. Usando le parole dello scrittore romantico tedesco E.T.A. Hoffmann (ne La principessa Brambilla, 1820), ci sono due tipi di narrazione: la prima porta all’oblio di sé stessi; la seconda a una concentrazione ancora maggiore sulla propria condizione (e, questa, Hoffmann chiama arte). In Paranoia Agent, Kon accusa i primi (e Maromi e il Battitore con loro) e si situa tra i secondi, lasciando in eredità un chiarissimo, doloroso testamento che non offre soluzioni ma radiografie impietose del Giappone contemporaneo e della sua società, funestata, questa la tesi di Kon da corrosivi demoni interiori.
Non solo gli strascichi psicologici del disastro atomico. Nel corso degli Anni Novanta, il Sol Levante è attraversato da drammi collettivi come il “Wild Child of Japan”, anche detto Giovane A, bambino che nel 1997 perpetrò brutali attacchi fisici ai danni di compagni di scuola più piccoli; o gli attacchi terroristici della setta religiosa Aum Shinrikyō, che nel 1995 rilasciò dosi letali dell’agente nervino sarin nella metropolitana della capitale. La parola d’ordine, in questi casi, è occultare, impilando nuovi tabù sulla psiche collettiva. Qui si generano ansia, risentimento, chiusura in sé stessi. Ed è qui che i mostruosi, benefici Maromi e Giovane Battitore nascono.
Come già fatto in Perfect Blue (1997) e Millennium Actress (2001), Kon intreccia con scioltezza salti temporali e punti di vista, rinchiudendo lo spettatore nel mondo al di là dello specchio digitale, dove le rappresentazioni possibili sono infinite e altri, come nel caso del Mukbang, vivono la vita agognata dal pubblico. Se una soluzione, per citare Raymond Chandler, al “Grande Sonno” del Giappone, c’è, non è detto, sottolinea Kon, che sia facile o duratura. Sconfitto un mostro, se ne fa un altro. Il gioco della dimenticanza è a somma zero, un “cambiare tutto per non cambiare niente”. Gli schermi nipponici attendono avidamente il prossimo Pokemon (appunto, “mostro”) che sappia dare dolci sogni e distrarre la comunità dalle correnti sotterranee che ne minano le fondamenta.
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