
Intervista a Igort – Il cinema italiano deve rispecchiare la nostra cultura
Fumettista, musicista, drammaturgo e scrittore, Igort è uno degli autori più prolifici e polivalenti dello scenario artistico italiano. Dopo vari tentativi, è riuscito a debuttare nel 2019 anche nella Settima Arte, con l’adattamento dalla sua omonima graphic novel, 5 è il numero perfetto, di cui ha curato sia la regia che la sceneggiatura. Presentato alla settantaseiesima edizione della Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia, il film si è avvalso della partecipazione di star di fama internazionale come Toni Servillo, Valeria Golino e Carlo Buccirosso. Con grande gentilezza, Igort ci ha concesso un’intervista, svelandoci la genesi della sua opera cinematografica e i suoi futuri progetti.
Si ringraziano Marco Moroni e Marcello Nicolella, per il prezioso aiuto nel concepire questa intervista.
Buongiorno Igort, grazie di averci concesso quest’intervista. Nel passaggio tra la carta stampata e il film ci sono inevitabilmente dei cambiamenti da compiere, qual è stato il principale criterio che l’ha guidata nell’adattamento?
Ho cominciato a scrivere questa storia nel 1994. Abitavo a Tokyo e approfittavo della distanza per guardare alla mia cultura di provenienza, alle mie radici, se vogliamo, vedendole da lontano. Ricordo che volevo scrivere una storia che comprendesse una parte ironica e una parte molto drammatica. Napoli mi apparve il teatro naturale per raccontare questa vicenda. Da allora sono passati tanti anni. L’obiettivo nel realizzare un adattamento cinematografico di quella storia, di quei personaggi, era usare al massimo le potenzialità del medium cinematografico, nei limiti che il mio talento mi consentiva. Dunque la parola d’ordine era “dimentichiamo il libro”; quello era, ben inteso, la base, ma nella messa in scena occorreva reinventare e sfruttare ritmi, suoni, movimenti, voci, il corpo degli attori, la fisicità di vere scenografie, luci proiettate, ombre tagliate, in modo da creare un universo metafisico che rispecchiasse la solitudine e la malinconia del protagonista. Per fare questo avevo idea di lavorare molto sulla recitazione, ma anche creare un apparato visivo marcato e molto caratterizzato. Abbiamo lavorato con gli scenografi, il direttore della fotografia e il costumista in modo molto stretto, coordinato.
Spesso ha parlato di una ricerca artistica di “stilizzazione” per creare un mondo alternativo a quello reale. Guardando il film si nota una certa “patina”, che ci ha ricordato le operazioni di Coppola con il mondo della mafia. Era sua intenzione rifarsi a questo modello e aggiungere questa “patina”?
Non so a quale patina si riferisce. Il lavoro meraviglioso di Coppola deriva, a livello narrativo, da quello di Mario Puzo, autore di origini siciliane di romanzi come Il Padrino o Mamma Lucia. Il mio lavoro ha un taglio piuttosto diverso, i riferimenti sono casomai il teatro classico napoletano (Eduardo, Viviani, per esempio) o quello moderno di Borrelli (che peraltro compare come attore nelle vesti di Don Guarino) o di Moscato, ecc. Inoltre, rispetto al lavoro di proiezione mitica, cioè di identificazione con l’eroe, io, al contrario di Coppola, che pure ammiro molto, non canto un boss (Don Vito Corleone o Don Michael Corleone), ma un guappo che fa le commissioni, un camorrista di serie B, un uomo piccolo, un operaio della Camorra. Uno dei motivi della mia grande intesa intellettuale con Toni Servillo è la comune passione per Anton Čechov, ed entrambi abbiamo cercato di ritrarre quello che Čechov chiamava «un bislacco». Un uomo che crede di aver vissuto la sua vita al meglio e che, man mano che le circostanze gli portano uno sgarbo mortale, comprende, lentamente, ma inesorabilmente, di non aver capito nulla, di avere sbagliato tutto. In questo senso il mio lavoro è, credo, profondamente europeo, dubitativo, proprio rispetto alla figura dell’eroe.
Ci permetta un collegamento audace. Il maestro Hitchcock, diceva: «Un film è come la vita, ma senza le parti noiose». Secondo questo principio il regista inglese sosteneva di concentrarsi sulle parti per lui più importanti, scartando passaggi noiosi o inutili nell’economia della narrazione filmica. Crede che questo discorso sia applicabile anche al suo lavoro nei confronti della materia narrata?
La storia era quella e volevo raccontarla, ho tagliato delle parti e aggiunto delle altre, sino a giungere a un equilibrio narrativo che mi soddisfacesse.
Dall’uscita del suo libro alla lavorazione del film sono passati anni. In un arco di tempo così, tutti gli autori hanno dei ripensamenti sulle proprie opere, com’è stato tornare su un lavoro dopo tanto tempo?
È stato facile perché non dovevo ripensare a quel lavoro, dovevo proprio reinventarlo e così è stato. Abbiamo girato nella città, rendendola vuota, notturna, piovosa. Il lavoro sui suoni ha molto contribuito, credo, a caratterizzare Napoli; c’era l’eco dei rumori di una città in perenne movimento, ma quella eco erano i fantasmi, lontani, di una vita che sembrava un ricordo. A parlare erano le ombre, e, nella migliore tradizione del noir, le luci tagliate.
In una scena del suo film c’è una menzione ad uno dei “cattivi” italiani più popolari, Kriminal. “Cattivi, ma con un’anima” diceva Max Bunker. In effetti il nostro fumetto ha un’occhio diverso e più profondo verso personaggi anche estremamente negativi. E questo non può non farci ripensare al suo Peppino. Sente artisticamente un qualche tipo di connessione con l’esperienza degli antieroi e dei cattivi italiani dei fumetti?
Non ne farei una questione di qualità, non credo che gli eroi neri italiani fossero più profondi o articolati degli eroi americani. La mia è un’ironica constatazione antropologica: i nostri eroi in calzamaglia sono tutti dei criminali, mentre quelli americani sono generalmente i figli di una mentalità puritana e stanno tutti dalla parte del bene. Questo mi serviva come grimaldello, ancora una volta, per giocare sui meccanismi del genere e ironizzare sulle sue stesse regole. Lo scrittore Massimo Carlotto ha scritto: «Igort conosce le regole del genere e le deride». Ecco, forse, in questo “funeralino” del genere, c’è un po’ la lezione altmaniana. Il lungo addio infatti presentava un Marlowe che infrange, nella visione di Altman, ogni regola costituita dai film precedenti sul famoso detective privato, Marlowe appunto. A partire dalla scelta dell’attore, dove prima c’era Humphrey Bogart o Robert Mitchum, dei veri duri, Altman mette Elliot Gould, un antieroe per antonomasia: ironico, sornione, sguaiato e spassosissimo. Ridisegna le regole del mito e infrange la tradizione. Marlowe di Altman si vendica. Da questa lezione deriva molto cinema americano contemporaneo di alta qualità, dai Coen a Tarantino solo per citare due nomi molto noti alle platee di tutto il mondo.
Cita di solito Antonioni in merito alla nascita del cinema moderno, quale pensa che sia l’influenza di questo autore sul cinema contemporaneo e sul suo film?
Nel cinema italiano di ora non so, non molta credo. La lezione formale di Antonioni ha tanto influenzato molto cinema asiatico, Won Kar Wai in testa; quello di Sergio Leone, che ha ridisegnato le regole del western, reinventato tempi ed estetiche che hanno modificato in seguito anche il modello originale; o di Fellini, cinema adorato in casa, dai miei, con cui sono cresciuto e che è stato per me, invece, fondamentale. Io amo quel senso della messinscena, l’idea del cinema totale, visionario, che concepisce lo spazio e il tempo di racconto in chiave complessa, su più livelli, non naturalistico. C’è un equivoco da qualche tempo a questa parte, si scambia il naturalismo, il verismo, per la realtà. Ma il realismo è un genere, uno stilema, come l’espressionismo, dopotutto, e questo è un equivoco culturale molto grave, che rovina molti film purtroppo. Mi interessa molto anche il cinema asiatico, naturalmente, influenzato prepotentemente da queste visioni italiane, che, grazie a talenti impressionanti come Tsui Ark, John Woo, Ringo Lam, Johnnie To, Wong Kar Wai e tantissimi altri, ha saputo reinventare quello spirito, spingendolo ancora più in là. Ci vuole coraggio, ma soprattutto molta cultura visiva. E fantasia, ovvio.
Che feedback le hanno dato i suo colleghi fumettisti dopo questo esordio?
Mi pare che il film sia stato molto amato.
Si auspica che un autore riesca più spesso a trasporre una propria opera al cinema anche dopo questa crisi?
Non so, a me piacciono pochissimi film tratti da opere a fumetti, onestamente. Io mi auspico che in Italia e in Europa si pensi a un nuovo cinema, a un nuovo modo di raccontare e di vedere, con il coraggio che si merita un continente che è stato padre della cultura per dei secoli. Ecco, così come trovo che il cinema orientale rispecchi spesso la complessità di quelle culture, vorrei che il cinema italiano ed europeo in genere uscisse da questa visione dimessa, per osare. Per rispecchiare la ricchezza della nostra cultura di appartenenza, che è stratificata e piena di cose meravigliose. La pittura ci insegna composizione, la musica ad ascoltare suoni e armonie. Basterebbe partire da questo. Il racconto, poi, credo che lo abbiamo nel nostro DNA. Come dice il profeta: «up patriots to arms, engagez vous».
Qual è il prossimo film che vorrebbe fare?
Mi alzo e scrivo e disegno ogni giorno, non so cosa diventerà libro o spettacolo teatrale o film. Le cose si fanno da sole.
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