
Corpus Christi, di Jan Komasa | La gabbia del pregiudizio
In copertina, un’illustrazione del nostro Riccardo Ferrari
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Nel nostro ultimo cartaceo, dedicato alla Biennale di Venezia, abbiamo inserito anche Corpus Christi, uno degli undici film presentati alle Giornate degli Autori nell’ambito di Venezia 76. In occasione della recente nomination a “Miglior Film Internazionale” ottenuta dalla pellicola per gli Oscar 2020, vi riproponiamo di seguito la recensione pubblicata a dicembre sulla nostra versione cartacea, con l’augurio che le soddisfazioni per questo film possano essere ancora molte.
Tra i film più interessanti delle Giornate degli autori spicca Corpus Christi (titolo originale: Boże Ciało), diretto da Jan Komasa e vincitore di due premi a Venezia 76: Premio Label Europa Cinemas e Premio per l’inclusione Edipo Re.
Il film, ispirato a fatti realmente accaduti, racconta la storia di Daniel, un giovane pregiudicato che ha trovato la fede in riformatorio e vorrebbe diventare prete, ma non può a causa dei suoi precedenti penali. Trovato lavoro in una falegnameria di una piccola città, vi arriva vestito da prete e viene quindi scambiato per parroco. Daniel si rivelerà un sacerdote illuminato e coinvolgente, che darà nuova vita non solo alla parrocchia ma anche a tutti gli abitanti del paese, aiutandoli a superare una recente tragedia. Una storia di redenzione, quindi, non solo per Daniel ma per tutta la piccola comunità che, grazie al finto sacerdote, conoscerà il potere salvifico di compassione e perdono. Valori cristiani che la Chiesa sembra aver dimenticato e che possono essere realmente compresi solo da chi ha vissuto sulla propria pelle le conseguenze dell’emarginazione sociale.
Ma il tema centrale di Corpus Christi non è la religione cattolica. Il fatto stesso che la storia cominci a conversione già avvenuta sembra suggerire che non sia Dio ad aver trasformato Daniel, ma la comunità che lo accoglie, il reinserimento nella società. La tunica sacerdotale funge quasi da maschera, da nuova identità che gli garantisce il rispetto delle persone che incontra e lo libera dai pregiudizi legati alla sua fedina penale. In questo senso, la parrocchia diventa per Daniel un nascondiglio, un porto sicuro in cui gli errori – e le persone – del suo passato non possono più raggiungerlo. Corpus Christi non è, però, un film che cerca soluzioni facili.
Daniel non è presentato come un santo o una vittima innocente: fin da subito, l’alternarsi di scene che lo vedono coinvolto sia in momenti di preghiera che in atti di violenza e criminalità creano un chiaroscuro di luci e ombre che fa dell’ambiguità morale una colonna portante.
Daniel è un personaggio enigmatico, complesso. La macchina da presa lo segue attentamente, registrando ogni sua reazione, ogni suo movimento, e insistendo particolarmente sui primi piani, come per indagare le emozioni nascoste dietro al suo sguardo, che l’impeccabile interpretazione di Bartosz Bielenia rende incredibilmente magnetico. Le atmosfere cupe e la fotografia algida sembrano voler restituire il punto di vista del protagonista e intrappolare lo spettatore nel suo mondo, una realtà tetra da cui sembra quasi impossibile uscire. Siamo quindi costretti a metterci sullo stesso piano di Daniel e ad adottare il suo punto di vista. Mentre la società riesce ad apprezzarlo solo nel momento in cui indossa una maschera e nasconde parte della sua identità, lo spettatore ha invece l’opportunità di calarsi nei panni di Daniel e accettarlo per quello che è realmente.
È proprio questo, in fondo, il messaggio rivoluzionario che permette al giovane pregiudicato di conquistare gli abitanti del paesino e aiutarli a curare una ferita collettiva: la comprensione. Trasportato dall’incredibile energia di Daniel, lo spettatore si imbarca, come la comunità parrocchiale, in un viaggio spirituale grazie al quale imparerà a perdonare e rispettare il prossimo. Una storia di redenzione che spiazza, ribalta le aspettative e ci mette davanti ai pregiudizi e alle ipocrisie della nostra società.
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