
Ran – Akira Kurosawa e il suo Re Lear | Kurosawa 110
Steven Spielberg definì Akira Kurosawa «lo Shakespeare pittorico dei nostri tempi», ma cosa rende i film “shakespeariani” del regista giapponese così speciali? La concezione del film come incontro tra forme d’arte diverse è sicuramente un punto di forza del cinema di Akira Kurosawa e continua a esercitare una fortissima fascinazione in molti spettatori. Un cinema che affonda le proprie radici nella cultura nipponica e contemporaneamente abbraccia anche i miti del patrimonio culturale occidentale. In questo serrato confronto fra Oriente e Occidente, Ran rappresenta una tappa imprescindibile.
In Ran, […] volevo mostrare che gli dei o Dio o chiunque osservi gli eventi umani provino tristezza per il modo in cui gli uomini i si distruggono a vicenda e non possano influenzare il loro comportamento.
I personaggi principali
Ran (“Caos” in giapponese) deve la sua forza alla sintesi perfetta fra il teatro Nō giapponese del XIV secolo e la tragedia di William Shakespeare Re Lear. Il film ricalca la struttura di Re Lear, ma ambienta la vicenda nel Giappone del periodo feudale. Il protagonista è Hidetora, un signore della guerra, che, stanco di combattere, decide di dividere il suo regno tra i tre figli. Il figlio maggiore Taro, il secondogenito Jiro e il figlio più giovane Saburo ricordano indiscutibilmente le figlie di Lear, rispettivamente Goneril, Regan e Cordelia.
Tuttavia, mentre Lear chiede alle figlie di dimostrare il loro sentimento attraverso una dichiarazione d’amore verso il padre, per decidere quale parte di regno assegnargli, Kurosawa ricorre alla parabola delle tre frecce. Secondo la leggenda, il condottiero Mori Hotonari, a cui è ispirato il personaggio di Hidetora, riunisce i tre figli e gli chiede di spezzare prima una singola freccia e poi tre assieme, dimostrandogli che l’unione fa la forza. Hidetora impartisce ai figli la stessa lezione, ma, a differenza della parabola di Motonari, secondo una visione più cinica della vita, Saburo improvvisamente rompe le frecce sul suo ginocchio, criticando la lezione del padre e mancandogli di rispetto. Dopo di che scappa proprio come Cordelia. Questo gesto catalizza gli eventi del film.
Diventa quindi preponderante la figura della crudele moglie di Taro, Kaede, femme fatale e astuta manipolatrice, che cerca vendetta su Hidetora per la morte della propria famiglia. Questo personaggio è del tutto assente in Re Lear, ma è intuibile che sia stata influenzata pesantemente dalle figure di Goneril e Regan, entrambe assetate di potere; Taro e Jiro invece vengono rappresentati come burattini controllati dal fascino di Kaede.
La follia del protagonista
Kurosawa però allude all’opera di Shakespeare non solo nel soggetto del film, ma anche nella psicologia del protagonista, che lentamente, come Re Lear, sprofonda sempre di più nella follia. Jiro e Taro vanno contro il volere del padre e decidono di ucciderlo per impedirgli di riprendere il trono. Hidetora allora viene circondato e attaccato; costernato da un gesto così sacrilego, cade nella depressione e nella paura. In una scena memorabile, Hidetora, esce dal suo castello in fiamme e, non potendo commettere seppuku (conosciuto anche come harakiri), vaga attraverso la carneficina della battaglia senza pronunciare una parola.
Questa rappresentazione visiva di Hidetora, psicologicamente devastato dalla guerra provocata dai suoi figli, rafforza il confronto con l’opera di Shakespeare. In particolare nella seconda scena del Terzo atto, Lear accetta la propria sconfitta, dopo aver rivolto una vera e propria invettiva contro la tempesta. Mi riferisco alla frase:
«Qui sta il tuo schiavo, un povero, malato, debole e disprezzato vecchio».
Kurosawa, consapevole di questo confronto, decide però di non sovraccaricare una scena già molto potente a livello visivo, con monologhi o dialoghi; trasmette lo stato di infermità mentale del protagonista, non attraverso le parole, bensì attraverso la sofferenza fisica del protagonista. Hidetora infatti viene ripreso mentre marcia lentamente oltre le mura del suo castello, senza seguire nessuna direzione precisa, completamente in silenzio, devastato da ciò che gli sta succedendo.
Pittoricismo e naturalismo
All’inizio del film Tatsuya Nakadai, che incarna Hidetora, è coperto da un trucco che gli permette di interpretare, in modo realistico, un personaggio molto più vecchio di lui. Il suo volto trasmette una certa soggezione, reso austero da un ricco vestiario dai colori vivaci. Successivamente però, il volto di Nakadai diventa sempre più smorto e pallido e assume le fattezze di una tradizionale maschera Nō, come per rappresentare uno spirito, un demone o una creatura ultraterrena. Kurosawa alterna il naturalismo occidentale al pittoricismo del teatro Nō per esprimere la spirale della follia di Hidetora. Il suo trucco si addensa gradualmente e diventa più stilizzato per accentuare il richiamo ai motivi teatrali.
Kurosawa quindi riesce a sintetizzare la tradizione giapponese con la narrazione occidentale enfatizzando ulteriormente il degrado del sé nella figura di Lear, attraverso la rappresentazione visiva del protagonista: Hidetora perde fisicamente la sua umanità e assomiglia più a uno spirito della tradizione giapponese che a un uomo.
L’amore di Akira Kurosawa per la narrazione occidentale è da attribuire alla longevità senza tempo e all’universalità della tragedia shakesperiana. Ed è proprio in virtù di questi aspetti che Kurosawa riesce a connettere la propria cultura con un’altra così diversa, suggerendoci che il lavoro di Shakespeare è potenzialmente capace di toccare l’intimità di ogni artista, di ogni essere umano in ogni spazio e ogni tempo. Con Ran, il genio di uno dei più grandi cineasti della storia del cinema incontra gli archetipi di un’opera classica inglese senza sminuirne la forza del messaggio originario, ma portando a una comprensione comune del sentire umano, che non ha bandiera.

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