
L’immortalità di Sarah Kane attraverso la sua opera – da Dannati a Psicosi delle 4:48
Non è colpa tua, è l’unica cosa che sento dire, non è colpa tua, è una malattia, non è colpa tua, lo so che non è colpa mia. Me l’avete detto tante di quelle volte che comincio a pensare che sia colpa mia
Si dice che le quattro e quarantotto sia l’ora dei suicidi.
Sarah Kane dedica a questo preciso orario della notte un posto d’onore nella sua ultima opera: 4.48 Psychosis. Un testo che racchiude per sommi capi i punti cardine dell’intera opera teatrale della giovane autrice, divenuta in pochi anni una delle voci più irriverenti del teatro del secondo Novecento.
Sarah Kane nasce in Gran Bretagna, si laurea all’università di Birmingham e inizia giovanissima a scrivere le sue drammaturgie e sceneggiature. Ciò che porta alla luce attraverso la sua scrittura drammaturgica sono soprattutto temi di ordine psicologico, emotivo, fisico, con una chiarezza disarmante. Anche per questo viene definita, ad oggi, uno dei volti del In-Yer-Theatre, un tipo di teatro che rompe gli schemi e le costruzioni sociali lontano dal classico naturalismo. Questa specie di “nuova onda teatrale” si inserisce in un particolare momento storico in cui la fascinazione verso la malattia mentale, il decadimento fisico e psicologico e le dipendenze era piuttosto avvertita, proprio in termini di enterteinement. Sono gli anni di Girl, Interrupted (celebre film di James Mangold), di Prozac Nation (prima romanzo, poi pellicola), Trainspotting, titoli conosciuti per raccontare storie al limite tra vita e morte, in cui la droga o il sesso non costituivano più tabù, bensì raccoglievano una vasta porzione di pubblico. Non è un caso se gli anni a seguire abbiano avvertito ancora l’eco di quest’onda che, dai primi anni novanta, si è protratta fino alla prima metà degli anni duemila con serie televisive come Skins (2007), la quale crea un mélange di tutti quei temi improvvisamente capaci sia di interessare che di irretire il pubblico.
Sarah Kane inserisce in questo panorama la sua opera con un coraggio, una forza e un’espressività singolari: la sua scrittura non si limita a rivelare un malessere per uno scopo terapeutico, bensì è essa stessa il mezzo (e il fine) attraverso cui l’autrice intende portare a galla i propri incubi.
Nel suo modo di affrontare temi come la violenza, il cannibalismo, la guerra, lo stupro, Sarah Kane dà forma ad ogni sua sfaccettatura psicologica, con una carica emotiva costante che non perde mai ritmo, creando parallelismi interessanti tra gli ambienti (il più conosciuto di tutti è proprio quello tra Gran Bretagna e Bosnia), rivelando una grande capacità di dare forma non solo al contenuto della propria opera, ma anche alla scena intera in senso scenografico, risultando capace di dare forma anche agli spazi scenici ed alla loro composizione, pensata proprio per essere adattata a luoghi diversi.
Come arrivati direttamente dai precordi, i sentimenti della Kane rivelano nella sua opera una rabbia, prima passiva poi attiva, nei confronti della vita; un grido di aiuto di chi, dalla deriva in cui si trova, denuncia la vita e decide di disfarsene.
Dannati
Ho visto un bambino con mezza faccia esplosa, una ragazzina che m’ero scopato si infilava le mani dentro cercando di grattare via lo sperma, un uomo affamato mangiava la gamba della moglie morta.
Quando a 23 anni Sarah Kane scrive Blasted, tradotta in italiano con “Dannati”, è convinta di aver scritto una pièce sull’alcolismo di un uomo comune.
È solamente in corso d’opera, quando i tre personaggi che la compongono prendono forma rispettivamente come Ian, Cate e Il Soldato che le appare chiaro quanto la sceneggiatura riguardasse qualcosa di molto più ampio: nel contesto brutale e violento della guerra nei Balcani, crea una cornice perfetta per la la grettezza dell’animo umano, suo vero soggetto e materia su cui lavorerà per molto tempo.
Lo stesso termine scelto come titolo, Blasted, deriva direttamente dal verbo “to blast” (letteralmente “esplodere”), volto ad indicare uno spostamento d’aria violento avvenuto durante una grossa esplosione. È così, infatti, che Sarah Kane partorisce, proprio nel senso più fisico e viscerale del termine, un’opera definita in un primo momento dalla critica come un «disgustoso banchetto di sporcizia». Lo scandalo all’epoca è totale: un tipo di rivoluzione in termini di linguaggio, scena e materia del tutto singolari.
Blasted è un urlo mai udito dentro una camera costosa di un hotel costoso, mentre nelle strade dei Balcani esplode la guerra, mietendo vittime: nelle quattro mura dipinte da Sarah Kane, si combatte un altro tipo di guerra. Non meno violenta, né meno sanguinosa: Ian è un giornalista alcolizzato, possessivo, violento. È malato, dilaniato da un cancro che lo rende ancor più disgraziatamente umano rispetto alla sua condizione. Nella stessa camera c’è Cate, una giovane ragazza del sud dell’Inghilterra, insicura e timida: l’incontro tra i due è chiaramente devastante. Non c’è amore, bensì desiderio di possesso, aggressione verbale, violenza fisica ed una bottiglia di gin.
Ha 23 anni Sarah Kane quando scrive Blasted, cambiando il volto di un’epoca. Il teatro conosce la brutalità della psicosi non per fini ludici o d’intrattenimento, ma prende atto della debolezza umana mostrata con forza e arroganza: il grido disperato di un corpo che si perde in se stesso.
L’amore di Fedra
Ippolito: che è successo?
Strofe: impiccata
(silenzio)
In un biglietto dice che l’hai violentata.Un lungo silenzio.
La prima rappresentazione di L’amore di Fedra (Phaedra’s Love), è stata messa in scena il 15 maggio 1996 al Gate Theatre di Londra, all’interno di un progetto di riscrittura mitologica in cui Sarah Kane destruttura completamente il mito, mantenendone solo alcuni degli aspetti più utili alla sua elaborazione artistica. La Fedra di Seneca è una madre che nega la sua natura, una donna che rifiuta la propria condizione, avvertendola come una condanna naturale; sposa di Teseo e innamorata incestuosamente del proprio figlio Ippolito, Fedra confessa il suo amore e si suicida.
Un finale che non ammette variazioni, particolarmente adatto alla volontà della Kane di mettere in luce il lato più disperatamente umano della vita e, con essa, della morte. Chiaramente il processo di rielaborazione dell’opera avviene con una forza espressiva di una certa potenza, i linguaggi cambiano e si contestualizzano in un’opera molto più recente. Il senso di annullamento della propria natura e di totale smarrimento è però mantenuto: sentimenti che Sarah Kane non solo sapeva lavorare, ma modellava con un tratto personale e preciso.
Seneca:
Fedra: Madre? Oh no, è un termine troppo solenne: ai nostri sentimenti va bene un termine più modesto.
Sarah Kane:
Ippolito: Perché non ti devo chiamare mamma, Mamma? Credevo si dovesse fare così. Una bella famiglia. L’unica famiglia reale veramente amata dal suo popolo. Ti fa sentire vecchia?
Con un semplice parallelismo risulta chiara la natura di un sentimento malato, estrapolata dalla Kane con estrema precisione; il focus è deciso, arriva sino all’ipocentro del disturbo psicotico e lo rielabora. Non ci sono più le mura di Atene a proteggere la scena, ma ci si trova catapultati anche qui in una camera, un marasma scomposto e disordinato, contemporaneo all’epoca della riscrittura. Ippolito è un ragazzo apparentemente qualunque, con un grave problema di depressione, che automatizza ogni gesto, perfino quello della masturbazione. Così la madre Fedra si contorce, dilaniata dal malessere del figlio, prende parte a dialoghi accesi e malati con la figlia Strofe: una figlia che riconosce il sentimento della propria madre, disgustandosene.
Attraverso questo lavoro si può comprendere come ogni volto che la Kane crea sia parte della sua precisa identità, come una riflessione del suo io più recondito. Esattamente come in Dannati, ogni personaggio cui lei dà volto (o che, come in questo caso, riscrive) porta con sé una parte dell’identità della drammaturga britannica. Essa si riconosce nella depressione di Ippolito, nella sessualità perversa di Fedra e nelle sue ossessioni, nella dissoluzione totale di una figlia. I dialoghi di L’amore di Fedra sono secchi, brutali, totalmente debilitanti. Creano un ritmo incredibilmente serrato nella narrazione, che non solo si fa carico di temi particolarmente importanti, ma si pone con asprezza nei confronti prima del lettore e, successivamente, dello spettatore.
Purificati
E se non sento male, è tutto inutile. Pensare di alzarsi è inutile.
Pensare di mangiare è inutile.
Pensare di vestirsi è inutile.
Pensare di parlare è inutile.
Anche pensare di morire è inutile cazzo completamente inutile.
Il viaggio nella malattia mentale per Sarah Kane continua con Purificati (Cleansed), il cui debutto è nel 1998. Il tema cardine di quest’opera si modella su una frase rimasta indelebile nella mente della scrittrice, tratta da Roland Barthes: «essere innamorati è come essere ad Auschwitz». Così questa drammaturgia si sviluppa assecondando il desiderio di purificare l’anima dalle sofferenze amorose, estirpando ogni traccia di disperazione e creando nuovamente un interessante parallelismo tra i luoghi. L’olocausto e la purificazione, in questo caso, sono strettamente correlati nella mente della Kane: l’allusione alla pulizia etnica è voluta ed evidente. Come una pioggia che lava via ogni malessere, la pièce è ambientata in un’università che ha tutte le fattezze di un campo di concentramento, nel quale si tenta di mondare la schizofrenia dell’atto amoroso. In perfetto stile Kane, il linguaggio utilizzato è particolarmente brutale, caratterizzato da una forte violenza, violenza addossata sul pubblico che non solo ne è colpito, ma addirittura affascinato: un poeta maledetto, la Kane, che si crea l’immortalità tramite l’irriverenza e la capacità di scardinare modelli, stili e registri.
Tale processo si concretizza nel volto di uno dei personaggi più vicini all’autrice: Grace. Una giovane donna che, anche per fattezze, somiglia alla stessa scrittrice. Un corpo androgino completamente devastato, incapace di amare e di farsi amare come vorrebbe. Proprio per questa vicinanza emotiva e psicologica a Grace, Sarah Kane non le fa sconti: il suo destino è quello di lasciare che il dolore la renda sia vittima che carnefice del proprio io, senza alcun tipo di indulgenza. Come chiodi piantati sulla pagina, le sentenze della drammaturga britannica non lasciano spazio ai convenevoli. Così Sarah Kane crea un’apocalisse, una devastazione totale che investe ogni personaggio presente sulla scena. L’ambientazione, come sempre, è completamente evocativa dello stato psicologico dei personaggi che la abitano. Incastrati nelle mura dell’università, prigionieri di un campo di concentramento, le azioni si svolgono lentamente: ogni personaggio si specchia in se stesso come di fronte ad uno specchio, stesso oggetto che la Kane riutilizzerà diverse volte sino a frantumarlo allo stato di coccio. La salvezza è raggiungibile solamente tramite l’espiazione dei propri peccati: come in una tragedia greca, è la purificazione l’unica chiave di redenzione. Da qui il titolo, I purificati.
Febbre
M: Confusione mentale, disfunzioni sessuali, ansia, cefalee, nervosismo, insonnia, agitazione, nausea, diarrea, prurito, tremori, sudorazione, convulsioni.
C: Ecco di cosa soffro, per ora.
Febbre non è un’opera scritta per essere interpretata da un personaggio specifico: è, anzitutto, un dialogo tra mille volti senza nome che urlano il loro bisogno di amore, la loro incapacità di stare al mondo. Penultima tra le drammaturgie della Kane, il suo titolo originale è Crave, poi acquisendo anche la traduzione italiana di “Fame“. Sono quattro storie che si intersecano, quelle di questo testo, un confessionale emotivo che continua in accumulazioni costanti e sovrabbondanti. Volti di cui non conosciamo né i tratti né il genere, che si prestano incredibilmente per una rappresentazione fluida e con interessanti espedienti sia tecnici che formali.
Una sceneggiatura che dice molte cose, ma che ne lascia in sospeso altre: come una veglia dopo il sogno, Febbre ha i contorni sfumati, espone un malessere che è più sovrabbondante rispetto ad altre drammaturgie, ma anche nettamente meno brutale e, per la Kane, ciò significa, irrimediabilmente, essere meno efficace.
Psicosi delle 4.48
Ho gassato gli ebrei, ho ucciso i curdi, ho bombardato gli arabi, mi sono scopata dei bambini piccoli mentre imploravano pietà, i campi minati sono i miei, tutti hanno lasciato il party per colpa mia…
Psicosi delle 4:48 (4.48 Psychosis) è il canto del cigno di Sarah Kane: l’ultimo grido disperato prima di commettere il suicidio: senza dubbio è la drammaturgia più intensa e forte della sua intera raccolta. Per la prima, e unica, volta l’autrice britannica scrive un intero monologo, senza pause né interruzioni, rivolto a destinatari diversi. La sua persona non è più mediata da volti e nomi, né da lettere o ambienti specifici, bensì la narrazione è quasi autobiografica: il dolore per un amore perduto, la violenza dei farmaci per combattere la malattia, l’assuefazione, l’ossessione, il pensiero suicida, le dipendenze, l’amore non corrisposto.
I nodi attraverso cui la Kane passa sono molteplici, ma il suo modo di affrontarli non è più furioso: mantiene la rabbia a tratti, ma prevalentemente il tono con cui dialoga tra sé e sé è un tono arreso. Conscia di dove la porteranno queste ultime pagine, la drammaturga inglese si fa un processo di accuse e colpe: come un’arringa ben studiata, Sarah Kane passa in rassegna ogni suo gesto e percezione, se ne carica totalmente e lo interiorizza. Gli interlocutori con cui parla sono molteplici: c’è il suo amore marcito per una donna che l’ha lasciata sola, la frenesia con cui si rivolge alla madre, lo psicologo che l’ha tradita, i suoi numerosi farmaci, il corpo di una donna in cui lei non si riconosce più. Giustifica la violenza subita, le lesioni celebrali, giustifica perfino i medici che l’hanno etichettata come malata. Sarah Kane non solo asseconda i suoi incubi, ma stringe loro la mano come se sapesse che il suo tempo per stare al mondo stia velocemente terminando.
Il talento di questa giovane donna non è frutto solamente della sua depressione: essa è stata, per Sarah Kane, un calderone cui attingere i sentimenti fondanti della sua opera. Opera che è rimasta immortale, che non smette di essere carica, forte e che, ancora dopo 21 anni dal suo suicidio, si dimostra unica. Il teatro di Sarah Kane arriva ad ogni spettatore possibile, perché fa capo proprio alle emozioni di ogni essere umano: ciò che si prova e si tace, di cui non si parla, che si ha paura di affrontare, la Kane l’ha preso e trasformato in eterna e disgraziata bellezza.
Il suo modo di concludere Psicosi delle 4:48, in tal senso, è decisivo:
Una me che non ho mai conosciuto, il volto impresso sul rovescio della mia mente:
per favore, aprite le tende
Quando il giorno entra, Sarah Kane viene trovata morta nel bagno del King’s College Hospital, a Londra, impiccata coi lacci delle sue scarpe.
Qui il nostro approfondimento di Valentina Avanzini sulla rappresentazione di Psicosi delle 4:48, messa in scena da Elena Arvigo, che abbiamo anche intervistato.
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ottimo resoconto dell’opera -un pressante invito a conoscere i testi; plauso a Nativi: ha il merito di aver”importato” Kane; le foto non hanno didascalie, si può rimediare?