
Ogni atto è un simbolo. Sarah Kane al Teatro OUT OFF: “4.48 Psychosis”
La scena è vuota, ma solenne. Come qualcosa che era ospitale ma che è strato distrutto, come un interstizio fra due mondi che ora – comunque – non esistono più. Per terra solo macerie, schegge di specchi che non servono più a niente se non a ferire e a tagliare i piedi nudi (l’unico specchio integro è troppo in alto e riflette solo una schiena). Niente sembra rispondere alle leggi della logica: un orologio troppo grande e fermo, i lampadari sdraiati per terra che si accendono a tratti come sinapsi impazzite, le carte da gioco, le urne del lotto che vomitano numeri inutili.
È uno spazio interiore, quello che risulta dalla sinfonia per uno strumento solo di Sarah Kane, 4:48 Psychosis, portato sul palco del Teatro Out Off fino al 27 gennaio da Elena Arvigo con la regia di Valentina Calvani. Uno spazio di risulta fra la lucidità e il delirio, senza coordinate se non gli orari notturni, disperati, senza personaggi se non un io infranto, colpevole, un tu che non sa capire, un voi che non può aiutare e poi un Dottor Questo, Dottor Quello, Dottor Come Va, tutti unicamente votati all’arte antica di pararsi il culo come ogni altro povero stronzo di mortale.
Un testo come 4:48 Psychosis, il testamento senza prole, il canto del cigno di una delle drammaturghe più controverse del secondo Novecento, richiede una messa in scena lucida, autoriale e decisa. E la regia di Calvani risponde con una partitura precisa, in cui i ventiquattro quadri del lungo monologo si incarnano nel corpo potente e fragile di Elena Arvigo. Tramite mai neutro, si muove sulla scena come in una gabbia, un percorso scandito dai toni, dai passi, dai silenzi. La voce è ora quella di una bambina, ora quella di un’amante preoccupata, ora quella di una donna giunta alla soglia della sua vita.
“Niente potrà mai placare la mia rabbia
E niente potrà mai restituirmi la fiducia.
Questo non è un mondo in cui ho voglia di vivere.”
In 4:48 Psychosis Sarah Kane mette in scena un universo intero, spigoloso, inospitale, in cui rabbia e malattia si accusano a vicenda di una brutale mancanza di comunicazione.
“Stato d’animo: incazzata.
Sentimenti: incazzatissima.”
Elena Arvigo si alza, si siede, piange. Urla. Dal pubblico la guardo come una cosa vera, viva, un pezzo di carne scorticato. Senza toccare la quarta parete, senza nemmeno curarsene, ha l’effetto di un pugno nello stomaco. Reagisco con freddezza. Non mi scompongo. È come vedere allo specchio qualcosa in cui non voglio credere.
“Alle 4:48
Quando la disperazione mi fa visita
Mi impiccherò
Al suono del respiro del mio amante”
Sarah Kane parla di suicidio e poi urla “Salvatemi!”. Mi chiedo come si possa scrivere qualcosa del genere. Scriverlo non su un diario o la parete di un bagno, scriverlo per vederlo recitato, per farlo cosa vivente. Elena Arvigo è un’eroina tragica, monumentale e disintegrata. Sul palco ci sono due, tre, cinque, dieci presenze ed è sempre lei che parla, muovendosi con passi decisi. Sono confessioni troppo intime, non c’è filtro, non c’è astrazione. Nemmeno nella realtà dei fatti: dopo la stesura di 4:48, Sarah Kane prova a suicidarsi con un’overdose di sonniferi. Scoperta e ricoverata in psichiatria, si impicca con i lacci delle sue scarpe in un momento di assenza del personale. Ha ventotto anni.
“Basta una parola sulla pagina ed è subito dramma
io scrivo per i morti
per i non nati
Dopo le 4 e 48 non parlerò più.”
La partitura del testo, la narrazione appassionata di Arvigo che piange in mezzo alla scena, le luci e le musiche di una regia fra l’incanto e l’incubo mi fanno ribrezzo. Ribrezzo, schifo, non riesco a pensare ad altro. Sono indifesa, non ho strumenti per raccogliere le parole come sassate, per organizzarle. È impossibile non riconoscersi in un’umanità così disperata, così implorante e quel riflesso di me che riconosco e odio mi fa – se possibile – ancora più ribrezzo. Eccola lì. La cosa, l’odio, il disprezzo, l’amore che non c’è e invece doveva esserci, la rabbia, la fragilità. È come vedere per la prima volta un macello dopo aver mangiato carne per vent’anni. L’impalcatura feroce delle cose, grottesca, senza sconti e senza uscita.
“Tagliatemi la lingua
strappatemi i capelli
mozzatemi gli arti
ma lasciatemi l’amore
preferirei aver perduto le gambe
che mi avessero strappato via i denti
cavato gli occhi
piuttosto che aver perduto l’amore”
Nella sua irripetibilità, nella sua necessità di essere vissuto prima che interpretato così che ogni volta sulla scena sia un’esistenza completamente a sé, 4:48 è un inno alla e della vita, tutta intera, al punto di vista che avremmo preferito non dover toccare mai.
“Guardatemi
guardate
una me che non ho mai conosciuto il volto impresso sul rovescio della mia mente”
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