
L’attore è un canale. Intervista a Elena Arvigo
Antigone, Giocasta, Ofelia: nella sua lunga carriera, Elena Arvigo dà corpo alle voci fra le più potenti nella storia del teatro, facendo propri gli interrogativi che le rendono immortali. Attualmente porta sul palco del Teatro Out Off 4:48 Psychosis, canto del cigno di Sarah Kane, spettacolo che, con la regia di Valentina Calvani, compie nove anni.
Cominciamo da 4:48. Cosa significa portare in scena lo stesso spettacolo per più di centottanta repliche?
Potremmo dire che sia prima di tutto una prova di resistenza. Ma anche un regalo, un abbraccio che ci ha lasciato Sarah Kane. Autrice geniale, era anche molto consapevole dei meccanismi che muovono la macchina teatrale e ha lasciato i diritti di 4:48 liberi. Questo non vuol dire che non si paghi per rappresentarlo, ma che nessuno può averne l’esclusiva. E questo è stato importantissimo per noi che siamo una piccola produzione. Più volte, grandi produzioni che potevano permettersi costi molto più alti dei nostri hanno provato a toglierci dalla scena, ma Sarah Kane ci ha protetto. Tutti possono sperimentare su questo spettacolo. È un regalo, un atto poetico.
In questi nove anni hai sentito cambiare qualcosa?
Certamente. Molte cose sono cambiate, mi faccio domande che dieci anni fa non mi sarei mai fatta. Da 4:48 ho imparato, ad esempio, il valore della parola come articolazione. Nei testi di Sarah Kane, la parola è quella esatta, ha un valore quasi sciamanico. Ripetuta, scandita, è la formula magica che – se detta dalla persona giusta – apre una porta, svela qualcosa. Nel caso di Sarah Kane, è la parola che apre il cuore, schiude l’interiorità. Al pubblico, certo, ma prima di tutto a te che stai sul palco. Anche perché non si può pensare di comunicare agli altri rimanendo chiusi, impenetrabili. L’attore è un canale. E questo l’ho imparato negli anni, interpretando testi anche molto distanti fra loro. Ad esempio, Donna non rievocabile ha un linguaggio giornalistico, lì la parola è informazione secca, richiede un lavoro completamente diverso.
Cosa comunica, invece, questo linguaggio quasi profetico? Dove porta?
4:48 è come Medea, è un atto teatrale puro. Non è per i bambini di Medea che sei triste, non è per il suicidio di Sarah Kane che piangi. Ci sono in gioco altre altezze, altre profondità. Io capisco la necessità di trovare una trama, ma non posso che pensare alla poesia Scrivere un curriculum di Wislawa Szymborska:
“è d’obbligo coincisione
e selezione di fatti
Cambiare paesaggi in indirizzi
e ricordi incerti in date fisse.
Di tutti gli amori basta quello coniugale
e dei bambini solo quelli nati”
È vero, c’è la vita di Sarah Kane, il suo suicidio è reale, ma penso che sia un atto di rispetto del suo pensiero separarlo dai sui testi. Perfino da questo. In Love me or Kill me, è lei stessa a definire il suo teatro “profano”. Non provocatorio, non trasgressivo. Un disvelamento difficile da digerire perché mette in scena la vita al di là dei suoi confini prestabiliti. Anzi, mette in scena proprio la difficoltà a stabilire dei confini. E questo amore contraddittorio per la vita viene delineato con un’intelligenza e un’ironia con pochi paragoni. Il teatro di Sarah Kane, insomma, è un’educazione al pensiero.
Possiamo dire, quindi, che il teatro ha un valore educativo?
Penso che educazione sia una parola ambigua. Forse preferisco training, allenamento. Non è un processo cerebrale, non spiega niente. Ti butta dentro le cose, te le fa vedere. E poi sono fatti tuoi. Prendiamo ancora 4:48: sei dentro la sua stanza, sei dentro la sua testa. E adesso prova a dire che è malata, che non è normale, prova a dire che tu quelle cose non le hai mai pensate. Infatti, non credo che sia casuale che, nonostante la sua omosessualità, il medico con cui se la prende, che l’amore che l’ha delusa, tradita e non compresa sia un uomo, una presenza maschile. Sarah Kane impiega un anno e mezzo a scrivere questo testo, non può essere un dettaglio puramente autobiografico. È un completamente altro con cui ti devi misurare, è una specie di specchio.
In 4:48 è attraverso il tuo corpo che al pubblico arrivano entrambi (l’io e il completamente altro). Se il teatro è allenamento al pensiero, qual è il ruolo dell’attore?
Questa è una domanda che mi sono fatta molte volte e che continuo a farmi, perciò la risposta è organica, formatasi lentamente e in continua trasformazione. Io nasco come danzatrice, ho studiato a Londra e inizialmente non avrei mai pensato di fare l’attrice. Poi sono entrata nella scuola di recitazione del Piccolo a Milano, che mi ha permesso non solo di passare sette, otto ore al giorno con persone che volevano fare le sette cose che volevo fare io, ma anche di imparare a distinguere i grandi maestri. Della mia formazione mi è sicuramente rimasta l’importanza fondamentale del corpo come strumento. E poi della voce, che non ritengo qualcosa di separato. È qualcosa di materico che dipende da un organo, da un movimento. Come attrice, dei miei mezzi mi servo per farmi canale, per farmi interprete. Non mi interessa l’autobiografia. Scrivo perché ne sento l’esigenza, ma non potrei mai portare me stessa sulla scena. Sarebbe troppo, sarebbe come bruciare. Negli anni, ho imparato tantissimo dai grandi ruoli di responsabilità. Ho imparato tantissimo dalla traduzione. Sono una grandissima lettrice e per storia personale e famigliare parlo più lingue. Tradurre è un lavoro di responsabilità e interpretazione. Bisogna far risuonare, far capire, far arrivare. E questo penso sia il lavoro dell’attore: essere un interprete consapevole, essere un canale di carne.
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