
Gianni Amelio – Vi racconto il mio Hammamet | Intervista
È un silenzio rispettoso, tipico dei bambini assorti dal racconto dei padri, quello che avvolge il cinema Arsenale di Pisa la sera del 19 febbraio 2020. Sul palco Gianni Amelio riempie la sala di idee, appunti, quaderni di lavoro trascritti e ora tradotti in linguaggio orale. Lui, prima aiuto-regista e poi autore, che ha saputo raccontare pagine di storia italiana a modo suo, facendosi libero e onesto cantore del nostro passato senza voli pindarici, ma ancorandosi all’umanità dei suoi personaggi. Più che la particolarità dei propri protagonisti, Amelio vuole indagare l’universalità che essi simboleggiano, ergendoli a simulacri allegorici di vizi e virtù di un popolo costantemente diviso tra pregi e difetti, santi e peccatori. Un approccio personale alla storia da raccontare (sia essa universale, che frutto della fantasia), che Gianni Amelio non si stanca mai di ricordare. Lo ha fatto anche durante la presentazione del suo ultimo film, Hammamet (QUI la nostra recensione). Racconto intimista, ma non elegiaco o santificante, il film di Amelio segue gli ultimi mesi di vita del Presidente (Bettino Craxi), rifugiatosi in Tunisia e deciso a non affrontare la gogna mediatica e processuale a cui è chiamato a presenziare. Sempre posizionando la propria cinepresa alla ricerca di una possibile verità storica, e senza mai prendere una posizione personale, limitandosi al ruolo di osservatore super partes, Amelio tenta di far riconciliare il proprio pubblico con una fetta di storia recente ancora bruciante. E lo fa con la voglia di indagare i volti dei propri personaggi, come quello di un Pierfrancesco Favino in stato di grazia, per carpirne segreti mai detti, o dissentendo da pensieri e giudizi attraverso un semplice avvicinamento della macchina da presa. È un cantastorie dell’Italia, di quella accecata dai flash dei fotografi, di politici, mostri e santi, ma anche di figure umili, eroi nel proprio piccolo di un nido domestico da accudire tra sacrifici e silenti urla interiori.

Il mio Presidente come Riccardo III: un uomo di potere senza potere
È un regnante senza più corona, il presidente di Hammamet; un re il cui regno per un cavallo è stato sottratto della sua vita politica, per ritrovarsi nudo, posto alla mercé degli altri. Gianni Amelio non lo mostra, ma si sente tangibile il ricordo di quel peso insopportabile di monetine da 5 lire lanciate con forza da un gruppo di manifestanti all’uscita dell’Hotel Raphael. Dall’essere esposto alla rabbia altrui, al ritrovarsi segregato nel proprio Eden personale in Tunisia. Viaggio tra paradiso e inferno, per poi ritrovarsi in un limbo mortale in terra straniera. È un regnante, il Presidente di Hammamet, che una volta privato del suo attributo iconografico, simbolo del suo ruolo di potere, diventa un uomo come tanti, tra silenzi famigliari, recriminazioni e ossessioni.
Con Hammamet non volevo idealizzare o rivalutare la figura di Craxi – ci racconta lo stesso Amelio.
Il mio intento era quello di portare sulla scena un uomo di potere senza più potere. È un uomo, quello filtrato dallo schermo della mia cinepresa, che ha commesso errori politici gravi, certo, ma non era quello che mi ha spinto a realizzare questo film. Non mi interessava rivangare una storia dalla condivisione universale, che tutti noi già conosciamo, o a cui è facile accedere e recuperare nei minimi dettagli. Al centro del mio film non volevo dunque il Craxi politico, bensì il Craxi uomo, il grande statista degli anni Ottanta che si sta avvicinando alla morte. La mia speranza è dunque quella di sapere lo spettatore capace di togliere quel Velo di Maya che gli copre gli occhi per vedere non più il Craxi reale, ma un’allegoria del potere, un re senza corona come Riccardo II o Riccardo III. Per quanto mi riguarda io credo di aver rispettato sia la storia del presidente, ma anche quella dello spettatore non informato dei fatti. Non c’è niente di falso in quello che racconto, nulla che sia piegato a un fine diverso da quello di raccontare un uomo.
Ma da dove nasce l’esigenza creativa di Hammamet?
Il mio presidente nasce da una mia personale esigenza: quella di studiare la caduta di un uomo, andando oltre la portata del suo misfatto. Nel perseguire tale obiettivo, ho seguito l’esempio di William Shakespeare, capace di tratteggiare due regnanti come Riccardo II e Riccardo III stabilendo una fenomenologia dei loro comportamenti senza stabilire aprioristicamente se fossero o meno degli assassini. A me, cioè, non interessa scoprire se una persona è o meno colpevole, quanto risalire al motivo per cui lo è, scendendo negli anfratti della sua mente, capire le sue intenzioni e le sue fragilità. Non ho mai sentito il bisogno di un cinema impegnato fatto di tesi, antitesi e sintesi. Con Hammamet volevo dar corpo a una storia di decadimento, fisico e morale, perché è facile parlare degli eroi civili e dei santi, ma è più difficile farlo di figure scomode rendendoli uomini.
Raccontare la storia senza edulcorarla, ma dipingerla con l’onestà
Nel 1967 Gianni Amelio era un giovanissimo aiuto-regista che si ritrovava nelle campagne reggiane per raccontare, insieme a Gianni Puccini, la storia dei sette fratelli Cervi. Un primo approccio a quella galleria di uomini più o meno conosciuti che hanno scritto con le loro gesta acclamate, colpevolizzate, o ignorate, il grande libro della nostra Storia. Eppure dietro a questa voglia di raccontare senza orpelli decorativi, o retorici, il nostro passato, c’è sempre quella ricerca della verità che stuzzica il regista, gli fa brillare gli occhi e lo fa volare leggero con la fantasia. Perché nel suo intento narrativo Amelio non sente mai il peso della responsabilità. Prende in mano la cinepresa come se fosse una penna e scrive – senza mai giudicare – gli uomini che gli si stagliano davanti da diversi punti di vista.
La responsabilità c’è sempre anche quando uno parla di un ragazzo che incontra una ragazza, perché anche quella è politica. Io tendo a non prendere mai posizione quando si tratta di narrare fatti che raccontano la storia con la «S» maiuscola; piuttosto, preferisco pormi in un atteggiamento di onestà, pulizia morale senza scendere a compromessi che possano addolcire il mestiere. Quando facevo I sette fratelli Cervi ero giovanissimo e avevo la voglia di raccontare la lotta partigiana, anche in senso ruvido, violento, senza per questo dimenticarmi della dolcezza degli affetti e delle donne che circondavano i fratelli. Pertanto, io non faccio differenza tra pubblico e privato, impegno o non impegno; per me l’impegno deve essere quello dell’onestà e della non-furbizia. Non bisogna essere furbi quando si racconta le storie, perché così facendo si tradirebbe prima se stessi, poi gli spettatori. Nessuna edulcorazione, né strizzatine d’occhio. Io credo di aver avuto anche un po’ di coraggio nell’affrontare una fetta di storia recente con la quale non siamo ancora riconciliati. Tant’è vero che il film, purtroppo, è stato attaccato da varie sponde ancor prima di essere girato.
Tra esilio e nascondiglio, io punto alla contumacia
Uno dei punti fermi di Hammamet è l’ignorare il lato storico e politico del polverone che ha circondato la figura di Bettino Craxi. Una scelta autoriale precisa e netta quella di Gianni Amelio, che risponde alla volontà del regista di lasciare libero lo spettatore di andare, una volta concluso il film, ad approfondire la vicenda per confermare o smentire la versione datane nel corso della visione. Eppure, vi è un tema che il regista tiene gelosamente stretto a sé, elevandolo a perno centrale attorno a cui far ruotare lo stesso intreccio: è la volontà del Presidente di tagliare i ponti con le proprie responsabilità, rifugiandosi in Tunisia. Una decisione che dettò scandalo all’epoca e che con fare onesto e oggettivo Amelio tenta di indagare sotto una nuova luce.
Tutta la querelle nata intorno alle due parole, “esilio” e “latitanza”, io penso di averla risolta con una terza: “contumacia”. Se è vero che siamo di fronte a un uomo che non si presenta in tribunale, bisogna allo stesso tempo ricordare che il latitante è colui di cui non si sa il domicilio, o il suo nascondiglio. Mentre di Craxi si sapeva tutto, dall’indirizzo al numero di telefono. Pertanto a venticinque anni di distanza dobbiamo interpretare bene questa che gli è stata affibbiata come latitanza. La sua non è stata una scelta accettabile, continuando a dire che l’unico posto che doveva giudicarlo era il parlamento. Eppure, lui si è sottratto alla regola base della politica: affrontare i propri avversari come in battaglia per difendere le proprie idee. Perché questa è la politica: un universo in cui non dovrebbero esistere nemici, ma avversari da combattere in nome di un pensiero, o ideale, che ti senti in diritto di difendere dagli attacchi altrui. E oggi manca questo desiderio di protezione a fronte di un gioco di potere che ha sempre più sostituito il concetto antico e assodato di politica. Forse, al di là di tutti gli errori madornali che ha compiuto, l’ultimo grande statista è stato proprio lui, il protagonista di Hammamet.
In Hammamet non c’è giusto o sbagliato. Solo libertà di giudizio da parte dello spettatore
Mi ricordo che ai tempi c’erano dei sondaggi e tra questi ve ne era uno che chiedeva “qual è l’uomo più onesto di cui vi fidate in Italia?”. Bene, al primo posto c’era il giudice Di Pietro, al terzo, preceduto da Hitler e Mussolini, veniva Bettino Craxi.
Chissà, magari è partendo da questo ricordo, rafforzato da quello di cronaca dell’Hotel Raphael, che Amelio ha voluto studiare, indagare, e sfidare il ricordo comune, l’uomo nascosto dietro gli attacchi, rifugiatosi altrove per non affrontare la realtà. È uno sguardo che tenta di liberarsi da ogni appiglio ideale e politico quello di Gianni Amelio, regista che – come da lui stesso affermato – non ha mai votato socialista in tutta la sua vita, ma che non per questo si è sottratto dall’indagare, scrutare, e far rivivere questa figura così rivelante – nel bene e nel male – della storia italiana sul grande schermo.
Spetterà allo spettatore – continua Amelio – decidere se distanziarsi o meno da quanto portato in scena. Ma non c’è mai nel film un momento in cui io stia dalla parte del Presidente, o contro di lui: evito di accennare a una mia condivisione o presa di distanza da ciò che egli afferma o da come si comporta. Certo, mi devo avvicinare a lui per comprendere le sue ragioni, altrimenti non racconterei nulla, ma sarà poi lo spettatore a farsi un giudizio sulla base di ciò che ha visto e di cui sa già. Lo lascio libero di pensare, senza imporgli una mia idea preconcetta e, paradossalmente, a fronte di tutte le critiche ricevute, pare che sia proprio questa la mia più grande eresia: la libertà di raccontare, parlare, giudicare chi è già stato condannato.
Dal 2015 Birdmen Magazine raccoglie le voci di cento giovani da tutta Italia: una rivista indipendente no profit – testata giornalistica registrata – votata al cinema, alle serie e al teatro (e a tutte le declinazioni dell’audiovisivo). Oltre alle edizioni cartacee annuali, cura progetti e collaborazioni con festival e istituzioni. Birdmen Magazine ha una redazione diffusa: le sedi principali sono a Pavia e Bologna
Aiutaci a sostenere il progetto e ottieni i contenuti Birdmen Premium. Associati a Birdmen Magazine – APS, l‘associazione della rivista