
Babyteeth: un esordio maturo, non coi denti da latte
Durante la 76esima Mostra del Cinema di Venezia, la sera della prima proiezione di Babyteeth dedicata alla stampa in Sala Darsena forse in pochi si aspettavano di assistere a qualcosa di più che a una semplice sick lit adolescenziale. Giustificazioni ce n’erano; in primis, quella relativa alla regia, affidata alla giovane australiana Shannon Murphy, esordiente che quasi in pompa magna s’è ritrovata dritta dritta a gareggiare nella main competition del Leone d’Oro (non bazzecole). In secundis, c’era da stare attenti, appunto, alla deriva del tema – tra i più inflazionati – che permea la pellicola: quello della malattia incontrovertibile che unisce di frequente i personaggi young adult in relazioni melense e nel dramma dei tristi addii, attraverso i quali si tenta meschinamente di obnubilare il livellamento e la mancanza di originalità di cui questi film sono vittime. Eppure, per la sorpresa dei molti in sala, le scelte registiche della Murphy rifuggono efficacemente da questi facili rischi, quello dell’inesperienza e quello della scomodità – nella comodità – del tema affrontato, permettendole di confezionare un’opera prima dalla fruizione gradevolissima, ben bilanciata, tra le più gustose di questa 76esima Mostra che troppo ha ceduto il passo a produzioni spesso stagnanti, tediose, tendenzialmente prolisse e scomode.
Adattato dall’opera teatrale di Rita Kalnejais, che ritroviamo anche al timone della sceneggiatura, si potrebbe dire che Babyteeth narri di un amore e del suo definirsi nelle circostanze complesse della malattia, di un dramma familiare che si ottunde in attesa della morte. Ma è nelle modalità con cui il film si rivela che risiede la sua particolarità e forza.
Da subito la macchina da presa ci introduce nella vita dell’adolescente Milla (Eliza Scanlen), la quale, osservando i binari davanti a lei e meditando, forse, sulla possibilità di porre fine anticipatamente alla propria esistenza, viene intercettata dalla figura di Moses (Toby Wallace), un tossicodipendente poco più grande di lei che le avanza una richiesta di soldi. La decisione di Milla di aiutarlo e assecondarlo, per poi trascinarlo nella propria vita con un fare spiccatamente curioso, pure celato dall’indifferenza di un volto che appare sempre uguale, risponde alla primaria necessità, scoperta in extremis, di poter conoscere l’amore, di fruirne e condurlo con sé nella tomba. Se la vita di Moses appare agli occhi affascinati di Milla più compromessa della propria, per i genitori della ragazza, Anna e Henry Finlay (rispettivamente interpretati da Essie Davis e Ben Mendelsohn), le prospettive paiono persino più buie, irreparabili. Alla malattia della figlia, la signora Finlay risponde rimpinzandosi di medicinali che il suo stesso marito, psichiatra, le prescrive; mentre quest’ultimo esaspera il razionalismo della propria professione per tenere assieme le parti ormai sfilacciate di una famiglia la cui spiccata disfunzionalità è da subito palesata sullo schermo.
Nessuno dei drammi individuali a cui assistiamo appare noioso, per quanto gli elementi compositivi dell’opera siano parte di un repertorio narrativo da lungo tempo consolidato e pure usurato, nient’affatto originale. Una via percorribile si sarebbe potuta avere nell’esacerbare gli stessi drammi, tuttavia la Murphy e la Kalnejais piegano verso un approccio più scanzonato e irriverente, facendo muovere i propri personaggi con un’incoscienza stralunata e una gestualità quasi da commedia slatpstick, alle volte senza curarsi della spumeggiante irrealtà della quale dover dare spiegazioni. Il merito dell’accoppiata Murphy-Kalnejais non si esaurisce però qui. Mediante una partizione della struttura narrativa in forma di capitoli, con titolazioni spesse volte – anche qui – irriverenti, si provvede a farcire il film di tessere, quasi autonome, dai toni più cupi e dolorosi. Attraverso di esse non si intacca l’atmosfera di impudenza beffarda con cui i personaggi sembrano accompagnarsi al triste epilogo di Milla, ma la si bilancia, la si parcellizza e responsabilizza: scene comiche come quella in cui Moses è ospite per la prima volta a cena in casa Finlay, alla presenza della madre strafatta che non può evitare di delirare, o ancora come quella del primo incontro tra Henry e la sua vicina di casa e il suo cane (anche lui – e da qui la comicità– di nome Henry), sono per necessità accompagnate da momenti di esplosione di una tensione sennò sempre recalcitrante, e dal lirismo tutto visivo di una fotografia che sa richiamare l’attesa della morte, come avviene per la mini-tessera del close up su Milla, capo immoto e sguardo assorto tagliato da un filtro arancio di luce nel buio vacuo della notte.
Quello della Murphy è un film forte abbastanza da ritagliarsi meritatamente, entro la dimensione del festival, un posto di rilievo accanto ai vari Polanski e Baumbach, a Kore’eda e Larraìn, e facendo ben meglio delle cocenti delusioni di Assayas, Egoyan e di quella Al-Mansour, regista di The Perfect Candidate, della cui presenza in gara per il Leone d’Oro non si riesce a dar spiegazione.
Con un Ben Mendelsohn in stato di grazia, una Eliza Scanlen ottima e già fattasi notare in Sharp Object (presto anche in Piccole Donne, di Greta Gerwig), e il lanciatissimo Toby Wallace, che pure s’è accaparrato il Premio Marcello Mastroianni per il miglior attore emergente, Babyteeth vola verso una distribuzione internazionale che, dopo quello della critica, potrebbe agganciare anche il gusto del grande pubblico, soggiogabile in particolare con le lacrime che scaturiscono proprio da finale del film: nella cornice graziosa di una spiaggia, entro la quale si definisce un istante di pacificazione di cui ci mancano le coordinate; un’alterità, dunque, ma felice, che solo il Cinema ha gli strumenti per creare.
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