
Amabili inconvenienti – La dea fortuna di Özpetek
A distanza di due anni, dopo Napoli velata (2017, qui la nostra recensione), Özpetek ritorna nelle sale cinematografiche con il suo ultimo lavoro La dea fortuna. La pellicola racconta le vicende di una coppia di lungo corso, Arturo e Alessandro, i quali, dopo quindici anni insieme, sentono che il loro amore ha perso ogni vitalità ed è ormai in piena crisi. A intricare la situazione, l’arrivo inaspettato della fraterna amica dei due, Annamaria (Jasmine Trinca), che lascia loro in custodia i propri figli, dovendosi recare in ospedale per accertamenti e cure. Nulla di originale a prima vista rispetto alla produzione cui ci ha abituato il regista, che nonostante alcuni ricicli immaginativi, riesce a produrre un prodotto pregevole e interessante.
In sintonia con la sua poetica, Özpetek sceglie nuovamente di problematizzare il concetto di famiglia. Ecco pertanto che Arturo (Stefano Accorsi) e Alessandro (Edoardo Leo) si trovano inaspettatamente a essere genitori dei piccoli Martina (Sara Ciocca) e Alessandro (Edoardo Brandi) con gli inevitabili imprevisti che l’arrivo di questa inattesa cicogna comporta. La macchina da presa analizza in modo lineare e con movimenti fluidi quanto avviene sotto il tetto di questa coppia: liti, litigi, scaramucce, sorrisi, abbracci, tutto ciò che serve per evocare la quotidiana vita di una famiglia.
Le tecniche narrative impiegate sono orientate in questa direzione, nel restituire uno spaccato di vita familiare, sicché il constante ricorso al campo-controcampo mette in dialogo tutti i personaggi che animano la casa; il primo piano dei protagonisti scandaglia meticolosamente il loro sentire umano, le emozioni che provano e che, nel loro manifestarsi, influenzano inevitabilmente gli altri; si pongono in risalto dettagli che evocano l’atmosfera di una vita domestica, con particolare attenzione al cibo. Centrale il ruolo delle numerose tavole apparecchiate che compaiono lungo tutto il film: la tavola che ospita la torta di due novelli sposi ad inizio pellicola, quella su cui Arturo e Alessandro mangiano, litigano, fanno svolgere i compiti scolastici ai due bambini, la tavola su cui la nonna offre il pranzo e il tavolo in cui viene allestito un buffet in occasione di un tragico lutto.
Abbiamo da un lato la volontà del regista di penetrare nella vita quotidiana di una famiglia, dall’altro quella di rappresentare in essa una sorta di elemento salvifico. Per quanto eccentrico, questo nucleo di persone che si viene a creare nel corso del film riesce non soltanto ad armonizzare la crisi di coppia tra Alessandro e Arturo, ma anche a dare un futuro a Martina e al piccolo Alessandro, che del protagonista più grande, non a caso, porta il nome. L’eccentricità risulta espansa (e ancora più inusuale rispetto a una presunta norma) dalla presenza di altri soggetti quali Ginevra (Pia Lanciotti), Filippo (Filippo Nigro), Esra (Serra Yilmaz), Mina (Cristina Bugatty), quest’ultimo nome evidente omaggio alla celeberrima cantate la cui canzone originale Luna diamante fa parte della colonna sonora. Ciascuno di questi soggetti evoca l’ombra di una sofferenza che ritrova il suo statuto, la sua accettabilità e il suo superamento all’interno del neo-nato legame familiare. Una grande famiglia quindi: del resto, non va dimenticato che per Özpetek essa si compone di persone che si scelgono in un percorso chiamato ‘vita’ e sul quale il regista aveva già lavorato in Le fate ignoranti (2001), Saturno contro (2007), Magnifica presenza (2012).
Problematica la seconda parte del film. L’efficacia espressiva della sua costruzione è inequivocabile, ma allontanandosi in alcuni punti dal realismo cui guardava la prima parte della pellicola, sembra portarci in una dimensione nuova, quasi in un film fantastico, fiabesco. Emblematico in tal senso il personaggio interpretato da un’attrice d’eccezione, Barbara Alberti, scelta felicissima per questo ruolo. Ella è la nonna di Martina e Alessandro, la madre di Annamaria, una nonna-strega che impone la sua crudele volontà, non accettando ciò che è altro da lei. Rinchiude i nipoti in un armadio, li ferisce, non rispetta le ultime volontà della figlia in nome delle sue tradizioni. Sarà l’eroico intervento di Alessandro e Arturo a liberare i bambini, prigionieri nella casa-fortezza (luogo delle riprese è Villa Valguarnera) della nonna. L’atto di salvataggio irrompe frettolosamente nella trama, quale deus ex machina, atto a metà tra surrealismo e realismo, il cui scopo è quello di ripristinare il lieto fine. Nel complesso se ne ricava un curioso senso di straniamento, cui Özpetek ha abituato il suo pubblico, dal più recente lavoro Napoli velata a Mine vaganti del 2010, in cui, curiosamente, tale ruolo salvifico era affidato al personaggio di una nonna-fata (Ilaria Occhini), diametralmente opposta a quella che troviamo in La dea fortuna.
La fortuna irrompe, mischia le carte, mescola le vite dei protagonisti in curiose combinazioni, ora tragicamente realistiche, ora surrealmente eroiche, ora comiche. Del resto strutturale è in tutta la produzione di Özpetek il legame comicità-tragicità. La fortuna, intesa come neutra sorte, ha fatto conoscere Alessandro e Arturo, ma è anche colei che genera lo spavento esistenziale, sempre dietro l’angolo sotto molteplici sembianze. A fine pellicola, la fortuna congeda i quattro protagonisti sulle rive del mare, in un immagine che, per quanto topica, manifesta inequivocabilmente il suo alto valore simbolico: nell’acqua ci si immerge per una nuova rinascita, per sancire un nuovo equilibro. Quasi in un sorta di battesimo, questa famiglia si istituisce di fronte lo spettatore, consacra il suo esserci alla fine di un percorso in cui i singoli componenti si appropriano l’uno dell’immagine dell’altro per sancire un legame indissolubile. «Come fai a tenere sempre con te qualcuno a cui vuoi bene?» chiede la voce fuori campo di Annamaria. Lo guardi, catturi la sua immagine e sarete uniti per sempre.
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[…] (Jasmine Trinca) soffre di attacchi epilettici da quando era bambina; fa la regista di documentari a tema religioso […]