
Light of my life – Intimismo e grazia universale
Ben 9 anni dopo Joaquin Phoenix – Io sono qui!, Casey Affleck sembra essere ancora alla ricerca di un luogo che possa essere definito casa. Nel mockumentary in cui Phoenix abbandonava la recitazione per intraprendere la strada dell’hip-hop e ritrovare sé stesso, il regista portava in scena il racconto diretto di una trasformazione lacerante e la sua dispersione di energia. Che fosse una truffa mediatica o una dolorosa verità, poco importa, perché, in quel (falso) documentario, Phoenix e Affleck sono riusciti a dare il meglio di sé collocandosi nelle zone d’ombra, mimetizzandosi, trasformandosi in oscurità, per attraversare le traiettorie della vita e osare un ultimo tuffo nel fiume della propria giovinezza. Per rinascere come una foglia.
Anche Light of my life – debutto di Affleck nel lungometraggio di finzione e presentato in anteprima alla 69esima edizione del Festival di Berlino – pone l’oscurità e la parola al centro dell’ordito narrativo. Nell’atmosfera disperata di un paesaggio post-pandemico e distopico e a seguito di una pestilenza che ha ucciso quasi tutte le donne del mondo, un padre e una figlia cercano di sopravvivere lungo le città del Midwest americano, nascondendosi nei boschi, lontano dai pericoli degli uomini. La principale preoccupazione dell’uomo è quella di proteggere la figlia, Rag. Il genitore mostra alla bambina come sopravvivere nutrendosi solo dei frutti della terra, le insegna l’etica e la morale, esercita la sua memoria e cerca sempre di rafforzare la giovane donna, ricordandole quanto sua madre la adorasse. Un incontro casuale, però, mina tutte le preoccupazioni che Rag e l’uomo avevano preso, mettendo a rischio il rifugio che si erano creati in quel mondo pericoloso e squilibrato.
In origine, ancora una volta, si colloca la parola. Un padre e una figlia, completamente soli, si estraniano dal mondo all’interno di una tenda immersa nell’oscurità dei boschi ma rischiarata dalla calda luce dell’invenzione creativa e della fantasia. Un lungo racconto su volpi, diluvi, separazioni e arche ricorre liberamente al topos biblico del diluvio universale e non sfugge all’intelligenza della ragazzina. Fin da queste primissime scene, negli occhi del padre – interpretato da Affleck – si scorge tutta la consapevolezza dei suoi limiti ma anche il commovente tentativo di assegnare alla narrazione un valore salvifico e liberatorio, certamente privo della capacità di incidere materialmente sulle condizioni di vita, ma, senza dubbio, in grado di dar vita ad uno scarto dalla realtà, alla formazione di un pensiero critico e, quindi, alla possibilità di un’obiezione.
Durante il percorso, il papà costruisce anche un’abile rapsodia di luci, provenienti da flashback velocissimi, lampi dalla memoria che accompagnano la paura, il dolore e i silenzi. È nel suo sembrare un eterno inizio e nel suo atto di scandagliare l’invisibile entropia della trasformazione che questo Light of my life finisce per somigliare a Joaquin Phoenix – Io non sono qui! più di quanto possa sembrare in apparenza. Perché, come il mockumentary, anche questo live-action di finzione cade a valle, evapora e sale al cielo, mostrando una coerenza visiva e narrativa capace di emozionare e appassionare. Fino alla scena finale, sospesa dentro un’ultima casa e depositaria della vera essenza di una storia che, effettuando una traslazione di segno e genere, affida il motore narrativo al futuro e chiude il cerchio di un racconto che, nei suoi presupposti intimisti, abbraccia la grazia universale.
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