
Panama Papers: la nuova commedia agra?
C’era una volta la cosiddetta commedia agra. È un termine che prendo in prestito da un volume di Manzoli (Da Ercole a Fantozzi. Cinema popolare e società italiana dal boom economico alla neotelevisione) che l’autore utilizza per descrivere alcuni film italiani del secondo dopoguerra nei quali l’elemento comico è stemperato o comunque apertamente messo a confronto con una realtà sociale drammatica e densa di contraddizioni. È un genere di film fortemente radicato nel suo tempo che, di fatto, non ha dato origine a una continuità stilistica importante, quanto piuttosto a una serie di film isolati che si proponevano però di continuare a ragionare sulle conflittualità latenti del sociale adoperando uno sguardo che non fosse necessariamente tragico.
Mi sembra che questo tipo di sensibilità emerga piuttosto bene nella recente fatica distributiva Netflix Panama Papers, diretto da Steven Soderbergh e presentato all’ultima Mostra del Cinema di Venezia, dove era in corsa per il Leone d’Oro. Che Soderbergh sia un abilissimo autore, specializzato soprattutto in film fortemente narrativi, è cosa nota e apprezzata dai fan e dalla critica. Qui lo affianca Scott Z. Burns, che con Soderbergh ha lavorato più volte con esiti piuttosto felici. C’è da dire che dal punto di vista drammatico e stilistico il film è esattamente quanto ci si poteva aspettare dalla coppia: solido e girato con grande maestria (le inquadrature d’ambiente sono fra le cose più belle del film). Panama Papers ha un ottimo ritmo anche grazie alle interpretazioni di un cast di ottimo livello (Meryl Streep, Gary Oldman e Antonio Banderas, per esempio).
La cosa che maggiormente colpisce di un film come questo, però, è il suo connettersi ad una realtà forte come quella dello scandalo dei Panama Papers. Senza scendere nel dettaglio dell’evento in sé (anche perché si tratta di questioni economiche piuttosto cavillose), è interessante notare come partendo da eventi fattuali, Soderbergh e Burns siano riusciti a costruire un film di grande ispirazione senza cadere nella tentazione (sempre dietro l’angolo in questi casi) dell’apologo moralista (penso ad esempio al film abbastanza recente su Snowden).
Attraverso la macchina da presa, insomma, Soderbergh compie una sorta di trasfigurazione e trasforma gli eventi reali in materiali squisitamente cinematografico, riuscendo nel non facile compito di mixare denuncia sociale delle contraddizioni del capitalismo e enjoyment filmico. L’operazione è tutt’altro che elementare, perché per condurla in porto si deve avere una conoscenza perfetta dei ritmi della narrazione, dei suoi ingranaggi elementari e delle aspettative del pubblico.
In questo senso mi sembra del tutto naturale che un lavoro come Panama Papers porti anche il marchio distributivo di Netflix, perché pur essendo un lungometraggio perfettamente autoconclusivo, il film sembra seguire il ritmo di un lungo pilot di una potenziale serie televisiva. La struttura dell’episodio della quality tv – su cui molto si scrive e si dice recentemente – sembra insomma innervare a un livello profondo Panama Papers, che di questa scelta non può che avvantaggiarsi, contando anche su un pubblico sempre più alfabetizzato e fidelizzato.
Insomma, le cose più interessanti di Panama Papers, come spesso succede con i film di qualità, si lasciano intravedere solo guardando sotto la superficie, dando un’occhiata al meccanismo di funzionamento della narrazione.
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