
#mitologie 2 – C’è chi canta senza aprire bocca
#mitologie è una rubrica ad apparizione casuale ispirata all’omonimo libro di Roland Barthes, pubblicato in Francia nel 1956 e in Italia conosciuto come Miti d’oggi (1974). All’insegna dello smantellamento o dell’«iconoclastia», Barthes leggeva il “testo” cosciente della sua infinità di senso, consapevole di vivere nella semiosi. “Mitologie” perché si concentrava sulla mitopoiesi moderna. Non può che essere un’occasione, per Birdmen, di affrontare altri universi semiotici.
Il secondo episodio di questa rubrica si concentrerà sul linguaggio dei segni utilizzato per “tradurre” le canzoni a chi è affetto da sordità, in una prospettiva critica, cioè con l’obiettivo di capire se abbiano o possano avere “autonomia” artistica.
Per recuperare il primo episodio, leggi qui.
All’Eurovision di quest’anno Mahmood e il suo brano Soldi, già vincitore a Sanremo, sono arrivati secondi, col plauso del pubblico. Ogni canzone in gara al concorso europeo è stata tradotta in linguaggio dei segni. La performance è impressionante, fin dalle spalline dei primi secondi:
Andrebbe visto, ovviamente, senza audio. L’autrice, scovata tra i commenti al video, è Hanneke De Raaf, ideatrice del progetto Tolk-It, scovata addirittura a compendiare un freestyle rap. Comunque, non è facile esaurire tutte le criticità di una performance del genere, soprattutto in virtù della sua sostanziale eterogeneità, per cui potrebbe dirsi recitazione, potrebbe dirsi traduzione, potrebbe dirsi persino canto, se è vero che le corde vocali cominciano a vibrare (cioè ad articolare le parole) fin dalla realizzazione mentale delle parole stesse.
Prima di tutto, non sono in grado di garantire che la lingua “parlata” dalla De Raaf sia la LIS, cioè l’italiano, e non una koinè, in questo caso un tentativo “comune” di lingua dei segni (p. es. la Gestuno); e nemmeno una delle altre lingue dei segni, visto che ne esistono a centinaia. Dalla componente orale del testo, cioè dalla componente labiale, sembra si tratti di LIS (si distingue chiaramente, nel ritornello, la ripetizione di «come va»). Per chi volesse approfondire la LIS, potrebbe consultare l’approfondita voce dell’enciclopedia Treccani, che chiarisce bene come si possa parlare di fonologia [1], morfologia e sintassi anche per le lingue dei segni. Molto utile anche il video di soli 7 minuti di Vox, a proposito della lingua dei segni statunitense.
In seconda istanza, bisognerebbe chiedersi quale sia la natura dell’atto, per cui, come ho già detto, potrebbe trattarsi di:
1) performance (teatrale), cioè di una rappresentazione che in qualche modo penetra il campo della «azione creativa» – con tutte le cautele del caso [2] – e di tutta una serie di performazioni artistiche contemporanee. L’elemento più esplicito in tal senso è che ci sia un interprete (inteso come performer) e un pubblico, il quale riceve un flusso di espressione, un “messaggio” e non delle informazioni, per cui si penserebbe a una trasmissione di “dati” in virtù di un principio di “utilità”.
2) traduzione, e precisamente di «traduzione inter-semiotica» (Jakobson), cioè di una trasposizione di un sistema semiotico (in questo caso un testo musicale) in un altro, un sistema gestuale, che ai fonemi faccia corrispondere i cheremi, le unità minime dalla combinazione delle quali è possibile articolare un significato. Si tenga conto, ovviamente, che il paradigma della traduzione come riproduzione “neutra” è oramai obsoleto (e con esso il concetto di “fedeltà”), per cui è pacifico ritenere che la traduzione, dovendo oltrepassare il paradosso della inscindibilità del legame significante-significato, comporta necessariamente un’acquisto e una perdita.
3) canto, ammettendo non una dipendenza del canto-gesto dalla canzone di partenza ma un accordo, per cui si intromette una dimensione creativa, nondimeno afferente alla danza.
Come è chiaro, i tre punti evidenziati, utili metodologicamente, rappresentano realtà interrelate, che si implicano a vicenda. In tutti i casi, l’ammissione è che vi sia possibilità di una componente creativa. Un corollario, senza dubbio altamente fallibile, potrebbe essere il giudizio di valore, cioè la capacità del pubblico anche udente di discernere fra un atto performativo di un livello alto (per cui, superata una certa “soglia”, criticamente problematica, si può parlare di arte), di un livello medio o infine basso eccetera, ovviamente con infinite stazioni intermedie. E per basso intendo un certo corrispettivo di assenza di densità allusiva, per cui può ritenersi “semplice” «comunicazione».
Certo, non credo sia facilissimo performare in linguaggio dei segni una canzone dei Lamb Of God, Ruin, addirittura live, tenendo conto della possibilità che la band improvvisi. L’interprete avrebbe dovuto dare luogo a una rappresentazione indipendente, che potesse ri-creare il brano, pur avendo cura di rimanere in tempo con le frequenze sonore della canzone (comunque percepibili dai non-udenti).
Di fatto, un atto del tipo descritto, che miri alla ri-creazione di una componente uditiva in immagini, affinché un individuo non-udente possa vivere una sensazione simile a quella che un qualsiasi altro individuo può provare ascoltando una canzone, può avvalersi di tutti gli strumenti possibili. La forma è quella di una compensazione creativa. Faccio un esempio cinematografico: come è possibile rendere lo “stile” di uno scrittore al cinema? Il regista può scegliere tra diversissimi espedienti: se lo stile è “frammentario” o “conciso”, caratterizzato da frasi brevi, può usare molte inquadrature. Al contrario, un Gadda vedrebbe numerosi piani sequenza, se trasposto al cinema. Ma non è detto, perché esiste una «poetica della traduzione», e dunque del riadattamento, della trasposizione eccetera. Riguardo alle numerose possibilità menzionate, penso alla LIS performer Francesca Fantauzzi che ha performato, in collaborazione col Teatro degli Orrori, il brano Vivere e morire a Treviso, in un video che mostra anche una certa attenzione agli strumenti propri del videoclip, per cui alcune note o alcune vibrazioni vengono rese in distorsioni di montaggio. Oppure all’interpretazione di La differenza tra me e te, da parte di Mauro Iandolo, il primo interprete LIS di brani musicali in Italia: il video mostra una somiglianza strabiliante con il video di Tiziano Ferro, somiglianza nella differenza.
Un altro esempio può essere quello di due diverse interpretazioni di Bohemian Rapsody dei Queen, per cui può farsi a sfondo bianco, senza molti orpelli e dichiarare forse una immediata corrispondenza col brano: qui il video; oppure si può pensare a una performance complessa, per cui uno schermo che compendi i gesti del performer diventa centrale: qui il video.
Ad ogni modo, dal discorso, non esaustivo certamente, si evince che sta aumentando l’interesse per la traduzione della musica in linguaggio dei segni e che questo potrebbe rappresentare una rivoluzione artistica, o comunque una novità ad alto tasso artistico. Non è da mettere in discussione, ovviamente, che questo interesse possa essere il risultato o la causa (o l’ingranaggio) di un’attenzione verso i linguaggi non-verbali e per la traduzione inter-semiotica, con un evidente effetto sociale, di grande importanza. Chiudendo, penso a Paese del silenzio e dell’oscurità (1971) di Werner Herzog, documentario assolutamente struggente sulla vita di alcuni sordociechi. Penso al momento in cui una donna decide di recitare una poesia ad altri sordociechi, ai quali dei traduttori simultanei tratteggiano dei segni sul palmo della mano. Una scena pazzesca, di altissima intensità emotiva. Oltre il volo della Straubinger non c’è nulla da dire.
[1] Per rendere la complessità fonologica, cito Treccani: «Nella LIS le unità minime (corrispondenti ai fonemi; ➔ fonologia) sono i parametri di formazione del segno (detti anche cheremi, dal gr. khéir «mano»). Essi sono quattro e ciascuno comprende una serie di realizzazioni (Radutzky et al. 1992): (a) il luogo di articolazione, che comprende alcune parti del corpo del segnante, lo spazio antistante al segnante e il cosiddetto spazio neutro; i luoghi nella LIS sono 16; (b) la configurazione della mano, cioè la forma che essa assume posizionando le dita; la LIS conta 56 configurazioni diverse; (c) l’orientamento del palmo della mano rispetto al corpo del segnante, che nella LIS può assumere 6 valori; (d) il movimento della mano o delle mani, che ha 40 realizzazioni.»
[2] Il “canto” tradotto in lingua dei segni è una performance in quanto si autolegittima in senso non solo operativo (sociale) ma anche estetico (artistico). Ed è altamente riconoscibile in questa doppia azione. Consideriamo, con Deriu, le «performance come vitali “atti di trasmissione”, ovvero un sistema di apprendimento, immagazzinaggio e trasmissione del sapere sociale». Perciò i Performance Studies «consentono di espandere la nozione stessa di “conoscenza”, includendovi il “sapere incorporato” (embodied knowledge)».
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[…] #mitologie è una rubrica ad apparizione casuale ispirata all’omonimo libro di Roland Barthes, pubblicato in Francia nel 1956 e in Italia conosciuto come Miti d’oggi (1974). All’insegna dello smantellamento o dell’«iconoclastia», Barthes leggeva il “testo” cosciente della sua infinità di senso, consapevole di vivere nella semiosi. “Mitologie” perché si concentrava sulla mitopoiesi moderna. Il terzo episodio di questa rubrica si concentrerà sul tema o “potenziale” tema del drone all’interno della serialità, con un’incursione nella poesia contemporanea: in fondo all’articolo, tre testi inediti di Bernardo Pacini, da Fly Mode, di prossima pubblicazione nella collana A27 di Amos Edizioni. Per recuperare il primo episodio, leggi qui. Per il secondo, leggi qui. […]