
Audrey Hepburn, 90 anni di un’icona disegnata su pellicola
Audrey Hepburn (Ixelles, 4 maggio 1929 – Tolochenaz, 20 gennaio 1993), che oggi avrebbe compiuto novant’anni, compare tra le fila delle più note e apprezzate dive della Storia del Cinema, insieme alle – cinematograficamente – coetanee Marilyn Monroe, Greta Garbo e Grace Kelly, tutte consacrate non soltanto a livello attoriale ma come icone femminili in senso più ampio: modelli divistici legati ai propri personaggi sullo schermo e ad un culto della persona fisica che con la Hepburn ha ottenuto uno degli esempi migliori. E’ proprio attraverso la sua fisicità, la sua “figura”, che viene costruita l’icona dell’attrice e la sua longeva influenza su un pubblico anche contemporaneo. La bellezza di Audrey Hepburn, e il suo stile senza tempo, vanno ricercati nel suo “essere una figura”, nella linearità di un corpo esile e dalle forme appena accennate che ha permesso ad una regia sempre attenta di modellarne l’aspetto a più livelli e di creare alcune tra le più amate figure femminili rappresentate su schermo.
In quasi tutte le sue apparizioni, Audrey Hepburn ha interpretato i “mutamenti” di donne dall’aspetto e dalla personalità opache. Il “modellamento”, questo cambiamento interiore che passa attraverso l’alterazione estetica, è un meccanismo perfetto per l’aspetto dell’attrice, e il merito va sicuramente attribuito anche al sodalizio con lo stilista francese Hubert de Givenchy e ai suoi abiti dalle linee geometriche e sensuali che sembra siano stati cuciti seguendo di lei le linee naturali. Ma la fama dell’attrice resta intimamente legata al suo corpo e al suo rapporto con esso. Tutto in lei è pura “linearità”, pura naturalità: il portamento, la mimica facciale, la sua figura sullo schermo che come una linea si muove tra i fotogrammi quasi riducendoli alla loro natura più stilizzata. Molto diversa dalla più procace Marilyn, figura dalle forme più nette e dichiarate che riempie l’obiettivo in maniera prorompente, e più che lasciarsi modellare, appare già matura. I personaggi femminili interpretati da Audrey Hepburn sono in principio figure dai tratti “universali”, donne non dissimili le une dalle altre e generalissime proprio nel loro anonimato, ma tutte in grado di riscoprire le proprie peculiarità e farne tratti distintivi.
Sabrina (Billy Wilder, 1954) è forse il film che meglio di tutti interpreta questo “mutamento” per immagini: la trasformazione della giovane Sabrina Fairchild, tanto interiore quanto esteriore, viene enfatizzata grazie al bianco e nero della pellicola, che toglie al corpo la sua plasticità per farne una vera e propria figura bidimensionale, un disegno astratto dove i contorni e il profilo della Hepburn scompaiono o emergono in base alla sintesi di luci ed ombre. Nella prima parte troviamo una Sabrina all’apparenza ancora insignificante, dove i grigi dei suoi abiti si confondono con l’ambiente, e sempre intenta a “nascondersi”, sbucando parzialmente sul ramo di un albero, dietro le vetrate del campo da tennis, sotto le automobili in garage. Dopo i due anni trascorsi a Parigi, una dissolvenza incrociata ci presenta la nuova Sabrina, inquadrata con un movimento di macchina che scorre dal basso verso l’alto, in un elegante tailleur scuro, cappellino e guanti, profilo che ben si distingue dai grigi sullo sfondo restituendoci per la prima volta i contorni ben definiti della sua figura.
Anche nel film musicale Cenerentola a Parigi (Stunley Donen, 1957) il trattamento della figura dell’attrice segue la stessa struttura: in disparte, anonima allo sguardo dei protagonisti, si mimetizza con la sua casacca beige tra le tonalità brune della libreria, sarà poi grazie ad uno scatto fotografico che inizierà la sua trasfigurazione. Scelta come nuovo volto della rivista «Quality», Jo, inconsapevole del potenziale del suo aspetto esteriore ma contraria ai trattamenti aggressivi di Maggie Prescott e delle sue segretarie, si rifugia nella camera oscura del fotografo Dick. Da un ambiente tutto bianco e asettico al buio e alla scala di rossi della camera oscura, dove i primi piani sul viso dell’attrice non si stagliano su uno sfondo monocolore ma si definiscono poco a poco tra le ombre. La potenzialità della sua immagine prende piede e si incornicia nella bidimensionalità della fotografia scattata da Dick, una prima – e quasi proto-cinematografica – apparizione della bellezza sul volto della protagonista di cui lei per prima era dubbiosa.
Infine, in Colazione da Tiffany (Blake Edwards, 1961), la trasformazione di Holly Golightly ha tratti differenti, e l’elemento estetico è reso dal continuo contrappunto che si crea tra la figura di Holly e l’ambiente esterno. In una dimensione di quasi costante non-abbinamento, l’aspetto della Hepburn sembra lottare sempre con l’aspetto della città, della casa disordinata e quasi “di passaggio”, mentre lei indossa il suo iconico tubino nero e il cappello a tesa larga adatto per entrare da Tiffany’s & Co. La linearità dei suoi abiti la distingue in maniera immediata, tanto dagli altri personaggi quanto dagli ambienti che attraversa, ma le fa anche da cornice allegorica, o meglio, da “gabbia” materiale che tenta di imporre una qual forma di rigore ad uno spirito selvaggio.
Le trasfigurazioni cinematografiche di Audrey Hepburn, la sostituzione degli abiti informi e incolori con abiti lineari e quasi “formali”, che si adattano alla silhouette della protagonista piuttosto che nasconderla, così come il passaggio da una condizione di annullamento ad una vivace consapevolezza del proprio corpo e della propria bellezza, rispondono ad un bisogno di emancipazione tutto femminile e senza tempo. E anche l’immagine opera la stessa rivoluzione: la “riduzione”, operata registicamente, della figura a linea e poi della linea a figura nuova, ricorda quello che fece Sabrina stessa, che, quasi giunta all’annullamento più totale inalando il gas dei tubi di scarico delle automobili in garage, rinascerà poi a vita nuova:
«Ho imparato tante cose qui, e non soltanto come si fa il canard à l’orange o la crème à la vichy, ma una ricetta molto più importante: ho imparato a vivere. Ho imparato ad essere qualcosa di questo mondo che ci circonda, senza stare lì in disparte a guardare. Stai pur certo che ormai non la fuggirò più la vita… e neanche l’amore.»
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