
60 anni di Colazione da Tiffany, dai dubbi di Truman Capote alla nascita di un mito
New York, un taxi si ferma e ne scende una figura esile vestita di nero che consuma la sua colazione ammirando le scintillanti vetrine della gioielleria Tiffany. Sulle note di Moon River di Henry Mancini usciva nel 1961 Colazione da Tiffany, diretto da Blake Edwards, scritto da George Axelrod e prodotto dalla Paramount; sono passati sessant’anni dalla nascita di un mito che ancora fa parte della cultura popolare. Ciò che ha reso il film un cult è indubbiamente l’interpretazione di Audrey Hepburn, allora trentaduenne, già estremamente famosa ma assurta ad icona proprio grazie alla protagonista Holly Golightly, della quale veste i panni.

La trama è nota a tutti: una ragazza di campagna e il suo vicino di casa (Paul Varjak, interpretato da George Peppard) iniziano un’amicizia che finisce per trasformarsi, tra mille difficoltà, in amore. Lei si è trasferita a New York per sfruttare uomini facoltosi, lui è uno scrittore poco prolifico mantenuto da una donna matura. Ma la genesi del film è piuttosto controversa: adattamento dell’omonimo romanzo del 1958 di Truman Capote, rientra a pieno titolo nel genere commedia romantica, eppure l’idea di base dell’autore statunitense era tutt’altra. La Holly di Capote, per la quale numerose donne hanno dichiarato nel corso degli anni di essere state l’ispirazione, è, a detta dell’autore, una mescolanza di varie figure femminili presenti nella sua vita: a partire dalla madre, Lillie Mae Faulk, che lo ha abbandonato da piccolo per tentare il successo nella Grande Mela sotto lo pseudonimo di Nina (così come l’orfana Lula Mae diventa la sofisticata Holly), fino ad arrivare ad alcune modelle che lo scrittore ammirava particolarmente, prima fra tutte Babe Paley.
Quella scritta da Capote è un’opera amara, disillusa e fortemente malinconica, del tutto priva dell’ovvio lieto fine hollywoodiano apertamente disprezzato dall’autore. L’adattamento cinematografico, a suo avviso, non coglie l’essenza della storia originale: ed effettivamente ciò che Edwards e Axelrod fanno è prendere i caratteri principali del romanzo per poi edulcorarli, piegandoli alle logiche hollywoodiane e alle istanze della sophisticated comedy.

Uno degli aspetti travisati dalla pellicola è l’amore platonico tra i due protagonisti, dato dai loro orientamenti: l’uno omosessuale, come l’autore, l’altra probabilmente bisessuale. La loro unione è pura in quanto slegata dagli elementi che problematizzano le relazioni – sesso e denaro – scatenando il gioco di potere e dipendenza centrale nella narrazione. La fluidità di Holly e le sfumature indefinibili del suo rapporto con Fred, come viene da lei rinominato l’anonimo narratore, vengono sullo schermo ridimensionate e incasellate in una classica love story eterosessuale – sebbene tra due personaggi anticonvenzionali – che inevitabilmente perde di complessità.
L’altro aspetto lamentato da Capote è il casting, tanto da farlo arrivare a definire Colazione da Tiffany il film con il casting peggiore di sempre. È noto come, nella sua mente, Holly fosse incarnata fin dall’inizio non dalla sobria ed elegante Audrey Hepburn, ma da Marilyn Monroe, per il fascino esuberante che la caratterizzava. Ciononostante, si dice che l’attrice abbia rifiutato sotto consiglio del suo manager, che non riteneva opportuno per la sua carriera il ruolo di una donna libertina; quel che è certo è che la Paramount ha infine scelto la Hepburn, scatenando il disappunto di Capote, che non la reputava adatta. Lei stessa, come ha dichiarato il regista, si sentiva estremamente insicura sul set, giungendo a identificare quello di Holly come il suo ruolo più difficile, a causa delle differenze caratteriali che la separavano dal personaggio – a detta sua, un’introversa che interpretava un’estroversa.

Tuttavia ciò che ha fatto del film un mito è proprio la protagonista, sulla quale l’intera narrazione si regge; la seguiamo nel suo peregrinare senza meta, nel suo tentativo di soffocare gli attacchi di panico (“le paturnie”) tra lo scintillio di perle e diamanti. E, aldilà del tubino nero, della tipica iconografia e di tutto il mercato che ancora oggi ne beneficia, Holly è innanzitutto un’icona femminista del suo tempo: contestualizzata nell’epoca, è un personaggio femminile forte che – seppure in modi discutibili – cerca di guadagnarsi la propria indipendenza, scardinandosi dai modelli classici, seguendo, come nel brano che è valso a Mancini l’Oscar alla Miglior canzone, il flusso del fiume. Ma se la Holly del romanzo vola via con un aereo che la porterà lontana da Fred – il quale nell’incipit del romanzo si domanda dove possa essere finita – quella cinematografica viene “salvata”, come fa presagire l’iconico bacio finale, eternamente legata a lui e impressa nella coscienza collettiva.
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