
Al Teatro Fraschini, Ezio Mauro e la storia del condannato
In scena al Teatro Fraschini, in data unica, Ezio Mauro ricostruisce la tragica vicenda che segnò il nostro Paese durante i dolorosi anni di piombo: il sequestro e infine l’assassinio di Aldo Moro.
L’ex direttore di Repubblica ripercorre i fatti in modo minuzioso e con impeccabile cura per il dettaglio storico, a partire dal giorno del rapimento, accuratamente organizzato dalle Brigate Rosse, fino al drammatico epilogo. Sul palco, Ezio Mauro legge una storia fin troppo familiare, corredandola di indizi che ne orientano la comprensione e accompagnandola con un punto di vista interpretativo peculiare.
La storia comincia delineando i tratti chiari della figura di Moro professore, che con il panciotto la cravatta e i gemelli, alterna alla vita accademica la discussione di un ambizioso progetto di alternanza tra centro e sinistra, in un periodo florido di cambiamenti che vede per la prima volta l’appoggio comunista al governo monocolore democristiano. Mauro spiega accuratamente la divisione della DC in più teste, combinando l’inchiesta giornalistica dal sapore investigativo con un impeccabile uso delle fonti storiche per la comunicazione. In questo modo, fornisce allo spettatore uno strumento di comprensione dei fatti: quel giorno, quella mattina del rapimento, si attuò lo scontro tra il tempo dell’ideologia e il tempo della democrazia. Sul campo, uno di fronte all’altro, il prigioniero e l’aguzzino, “la paura di ciò che sarà e l’angoscia di quello che è già stato”.
Il quadro si sposta in via Montalcini, nell’appartamento numero otto, lì dove cominciano i giorni di prigionia. Qui il racconto si fa debole, incapace di restituire l’intensità del dramma dei giorni vissuti in una prigione dai muri di carta: si può solo vagamente intuire l’agonia emotiva del sequestrato, così vicino al mondo fuori che affannosamente lo cerca, eppure isolato da ogni sostentamento. Tutto questo è però efficacemente racchiuso nello sguardo dell’uomo che, dal rettangolo della Polaroid che giunge al Governo, propaga una sofferta quiete. Non è rimasto nulla del panciotto e dei gemelli: al loro posto l’intimità violata, l’umiliazione dell’abito di stato che si trasforma in una camicia sbottonata.
I giorni scorrono faticosamente mentre tutti cercano. “La città imprigiona la prigione”, scrive Mauro, e nella frenesia della caccia, l’appartamento è calmo. Arrivano i libri, finalmente, libri che Aldo Moro ha già letto, sul marxismo e il leninismo. Tra una toletta e una cena frugale, chiede della carta per scrivere. Intanto, i secondini frugano nella borsa del prigioniero, che testimonia la banalità quotidiana della vita parlamentale. Cercano una prova che dia sostegno al processo.
Con rigore interpretativo, il giornalista riempie di senso il titolo dello spettacolo: Il condannato. Cronache di un sequestro. Nello specifico, la condanna dei rapitori era contenuta nella più complessa accusa ideologica da parte delle Brigate Rosse, che nella DC identificava il polo politico di una contro-rivoluzione imperialista mondiale. Moro, che consideravano la mente di un simile progetto, fu investito da un capo di imputazione universale, e poi condannato con un processo fasullo messo in piedi a fortiori. Davanti al muro sordo dei carcerieri, all’uomo rimane la parola, complessa e allusiva, con cui spiega il senso della sua politica, profonda e a volte inafferrabile: riempie di appunti il taccuino, poi un poco legge, o tenta di rompere il silenzio con il mondo fuori. Parla alla famiglia e ai colleghi politici, tentando di orientarne l’azione, invitandoli ad agire con l’intermediazione diplomatica che è l’unico modo per sottrarlo a un dominio assoluto: un ostaggio per un ostaggio. Solo questo scambio può salvarlo.
Intanto, una linea umanitaria si fa timidamente strada nelle dichiarazioni di fermezza sulla possibilità di trattare per il rilascio del prigioniero, ma alla reclusione che nella sua innocenza raggiunge vette di sacralità, si oppone il timore pragmatico di una reiterazione degli eventi: non si può scendere a compromesso con i terroristi. Dinnanzi all’incontrovertibilità di questa dichiarazione, le possibilità alternative di epilogo si accartocciano.
Il giornalista, che da tempo si è avvicinato alla vicenda Moro, include nel suo preciso resoconto i diversi punti di vista a cui concede eguale spazio di parola. Parla della ragion di Stato che consente l’esecuzione della sentenza, del condannato ora conciliante ora polemico, finanche degli aguzzini, di cui mette in luce l’inquietudine che li investe nell’ultima fase del rapimento, quando cominciano a sentire il peso dell’enormità di quella asimmetria tra ideologia rivoluzionaria e singolo uomo inerme. E tutto questo è inserito in un racconto che andrebbe ascoltato a occhi chiusi. Non si tratta di uno spettacolo teatrale, non in senso proprio, anche se sullo sfondo compaiono una serie di immagini ricreate in diretta, fatte di ritagli di giornale e riferimenti spesso didascalici, che costituiscono un corpo estraneo alla narrazione perché incapaci di drammatizzare i fatti. Ed è opportuno, per questo, interrogarsi sul senso del Teatro come luogo di divulgazione, capace di aprirsi anche a finalità che sacrificano la messa in scena per un resoconto attento di un momento storico che ha segnato l’identità del paese, e che presenta una tragicità intrinseca.
I momenti dello spettacolo, spesso allusivi e distanti, sono tuttavia anche capaci di attanagliare lo stomaco: come quell’ultima chiamata, fatta dai rapitori alla moglie di Moro, che parla di uno strazio troppo diverso per essere condiviso, e che sancisce la fine degli eventi. La pistola, come Cechov saggiamente suggerisce, alla fine deve sparare.
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