
“Laribiancos” di Cada Die Teatro: il cosmo nella voce
Li chiamavano “sos laribiancos” – “quelli dalle labbra bianche” –
era il segno distintivo, inconfondibile, dei poveri di Arasolè,
un paesino ai confini con le foreste del Goceano.
Si riconoscevano subito:
mangiavano troppa poca carne,
troppi pochi carboidrati,
troppe poche proteine…
…troppi pochi grassi saturi, vitamine idrosolubili neanche a parlarne,
acidi ialuronici non pervenuti, polisaccaridi ramificati manco l’ombra.
Bifidus Actiregularis? Fantasia.[1]
Esordisce così – prima di degenerare completamente nelle parole dell’autore dell’articolo – lo spettacolo Laribiancos di Cada Die Teatro, ultima fatica scenica con cui il periferico Cineteatro Volta va affermando la propria non trascurabile presenza nel panorama pavese. Dando prova, nella programmazione curata dalla astigiana Casa degli alfieri, di una devota predilezione per il teatro di narrazione: per una forma teatrale in cui contraltare all’assoluta povertà scenica risulta essere la ricchezza sconfinata della parola, del racconto; della voce appassionata che erige mondi, genera personaggi, dà la vita. Sorgente di un tale flusso scenico, l’omonimo romanzo di Francesco Masala, Quelli dalle labbra bianche (1962): la storia di dieci ragazzi partiti per la seconda guerra mondiale a bordo di un vagone bestiame, e mai più tornati.
Protagonista unico e indiscusso del palcoscenico, durante la serata di giovedì 28 febbraio, è stato Pierpaolo Piludu.[2] Distogliendo lo sguardo e limitandosi ad ascoltare, tuttavia, saremmo potuti giungere a tutt’altre conclusioni. Sulla scena del Volta avremmo magari immaginato un intero cast, uno schieramento da teatro stabile. Quasi venti personaggi: dieci laribiancos, tra gli ultimi e i più dimenticati abitanti di Arasolè,[3] e con loro mogli, madri, amanti.
Un intero villaggio sardo, prossimo al rastrellamento coscrittivo per rimpolpare il fronte russo, animato dalla voce di un solo interprete. Dalle urla, dai falsetti, dalle smorfie e dai gesti frenetici dell’instancabile narratore; dalla sua polifonia divorante, viscerale e ininterrotta.[4] Giovani pieni di sogni, pastori taciturni, padroni austeri, gerarchi dall’eloquio mussoliniano, madri devote, prostitute disilluse. Uno sfaccettato universo agreste collocato nel suo ambiente naturale – a sua volta figlio delle parole – e fatto parlare nella sua lingua natia, in un misto di sardo e italiano che respira di tempi diversi, di luoghi diversi.
Più semplici, forse. Ma anche più autentici.

Complici irrinunciabili a tale realizzazione, bisogna dirlo, le melodie originali di Paolo Fresu, premiato jazzista originario dell’isola. Affiancate con maestria da più umili suoni d’ambiente: come le campane con cui Culubiancu [sic], il campanaro di Arasolè, mantiene viva la memoria degli amici morti in guerra, un rintocco alla volta. Stagliate su tale panorama sonoro, le parole di Piludu hanno assunto ancora maggiore corporeità.
L’illusione è stata totale. Pavia e la Sardegna, il covo umido di tutte le zanzare della Pianura Padana la cittadina della nebbia e l’isola del sole, non sono mai state così vicine.
La conclusione la vorrei dedicata a coloro che, cronologicamente, hanno aperto la serata. Altri narratori; un gruppo, stavolta. Abitanti senior del rione Scala, “reclutati” presso il centro anziani adiacente al teatro dall’associazione Calypso e invitati a loro volta al racconto dalla giornalista Marzia Forni. Argomento ed epoca di riferimento non sono variati molto, dopotutto. Protagonista di questo pre-spettacolo è stato l’aereo da caccia modello “Pippo”: il rapace di ferro che, dopo la nascita della Repubblica di Salò, terrorizzava le notti del nord Italia. A evocare il bombardamento, allora, bastava una sigaretta accesa: una fiammella rapidamente ricambiata da quella di una bomba incendiaria.
Un vero e proprio pezzo di Storia; affiancato a quello che ha costituito il fulcro della serata da coloro che direttamente l’hanno vissuto.
Grazie.
Un grazie di diverso tipo va infine a Pizzeria Shardana, che all’evento ha generosamente contribuito con una serie di specialità sarde e con una torre di cartoni di pizze che è stato un vero piacere smontare: sottraendone una fetta alla volta fino a dissolverne completamente anche le fondamenta. Era tutto buonissimo.
[1] Non che non lo fosse già in originale per la Marcuzzi, però passi.
[2] La regia è di Giancarlo Biffi.
[3] Da pronunciarsi con una “s” sorda quanto immateriale: forse plausibile nella realizzazione solo ed esclusivamente per gli organi fonatori di un nativo dell’isola sarda.
[4] Se si trascura il doveroso momento di pausa a ¾ dello spettacolo: favorito da un cliffhanger a carattere erotico opportunamente posizionato. Quel che succede ad Arasolè, rimane ad Arasolè…
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