
Ivan: a proposito di un Inquisitore
Cosa aggiunge l’arte scenica a un capolavoro intramontabile di letteratura? L’Ivan della Sinigaglia paga un debito alla grandiosità della leggenda dell’Inquisitore, ma Fausto Russo Alesi restituisce una coscienza perennemente in bilico tra gli abissi e la virtù di una fede cieca.
Dei Karamazov si parla, spesso. E così di Anna Karenina e del giovanissimo Werther, ne parliamo come se li conoscessimo per davvero, avendoli forse divorati da tempo immemore o anche se ne abbiamo gustato frammenti sparsi qua e là. Tutti parliamo de “I Demoni”, e ci capita di citare il Grande Inquisitore ogni volta – e accade spesso- che si scivola nella disputa intrattabile tra fede e libero arbitrio.
Eppure Ivan è solo un nome. Uno dei fratelli, chissà quale; e chissà quanto soffre ad implorare la considerazione di Alëša. Alëša, non il più noto dei tre, non il tormentato, l’eretico, il filosofo, il tremebondo scrittore. Non l’incerto, dilaniato, impotente Ivan.
Fausto Russo Alesi riesce ad essere tutto questo, nell’adattamento in scena al Teatro Studio Melato per la regia di Serena Sinigaglia. Il suo Ivan è colto in uno spaccato ben preciso e solo durante l’ incipit si concede a drammatici salti in un passato abitato da menti annebbiate dall’alcool e ira incontenibile. In quei quadri fumosi, intervallati da bui che fanno da cesura radicale, una voce metallica, di fantasma stanco ed evanescente, si spande per raccontare la storia di una delle famiglie più note di tutte. Una storia fatta di vivi e morti, di un padre che è tale nei brevissimi momenti in cui ritrova sé stesso, meschino esule della comunità familiare e umana. E lo vediamo, quel padre zuppo di cognac, che biascica una lingua moderna fatta di “fregne”, “manco”, “madonna santa”, con la voce che graffia animalesca sui motivi musicali che hanno della sacralità.
Sullo sfondo dell’oscurità totale, l’unico elemento scenografico si impone: una spirale si avviluppa su se stessa in modo disarmonico, arrampicandosi fino al soffitto con un numero di cerchi tale da indurre un senso di perdita. Ad illuminare questo vortice che dà la nausea, un gioco di luci che variano dalle fiamme infernali del rosso al blu pallido delle gocce di un tubo rotto che piange per tutto lo spettacolo, fino al bianco di un entusiasmo accecante. Tutte queste luci sono Ivan, Ivan denigrato e stanco, Ivan rampante e in adorazione per la vita, Ivan febbrile e pensieroso. Ivan col padre, con il fratello, con l’altro sé, con lo spettatore, con Dio. Ivan che parla a noi e come noi, perché l’attore gioca con una dizione sapientemente sporcata dal raddoppio di consonanti violente, dalle sillabe allungate e faticose, e con le parole lasciate fluire pigramente.
Poi, violenta e crudele, comincia la narrazione di quella parte di testo di cui ci appropriamo con citazioni e rimandi, a volte inopportuni e altre impudenti. Ivan, personaggio sottile sull’orlo della catastrofe, imbevuto di slanci estremi e paure, si eclissa e scompare dietro i panni pesanti del noto Inquisitore.
Letizia Russo riscrive le tre sezioni del libro V in cui, dopo “aver fatto conoscenza” con il fratello, Ivan Karamazov dà libero sfogo a quella che Bulgakov definì “malattia della coscienza” e altri “amoralismo estetico”, e perturbando la quiete dell’animo con le lacrime dei bambini indifesi umiliati, incita ad una ribellione lacerante contro tutto ciò che questo Creato ha predisposto per noi. Ascoltiamo parole pesanti: che il dolore dei figli non può fare da concime ad una terra sporcata dai padri, e che l’utopia di un’eterna armonia passa per un perdono insopportabile dell’orrore. La riscrittura della Russo è scorrevole e dotata di ottime qualità divulgative; la lingua che sceglie è comunicativa e vibrante e restituisce pieno potenziale alla Leggenda, alle velenose riflessioni del filosofo inquisitore e al lacerante silenzio del Cristo prigioniero.
Tra le pretese dei disgraziati e il potere sovrano dell’Inquisizione, si impone uno scenario apocalittico abitato dal gregge di suicidi e sterminatori che, dimentichi del sacrificio dell’autorità con cui Cristo li aveva condannati, strisciano con l’umile felicità del bimbo fino alla prigione vischiosa della gerarchia.
È un momento lungo, quello della parabola del Cristo che torna a disturbare il miracolo dell’oppressione, in cui lo spettacolo può concedere poco al suo attore e ancor meno alla regia, costretta ad eclissarsi dinnanzi al capolavoro russo. Allo spettatore è richiesto uno sforzo puramente concettuale perché l’adattamento condensa, in una sola anima esposta, l’eternità della domanda che più di ogni altra non può ricevere risposta, e tutto il nichilismo e l’abbattimento di una libertà troppo esigente. E cosa si può aggiungere al tormento della genuflessione comune? È un monologo in cui il miracolo si rinnova e si spegne nell’Imprigionato, e mentre le pagine da sole danno voce al mistero, il pubblico silenziosamente accoglie e medita.
Chiusa la parentesi di sogno e incubo, l’attore si riappropria del suo mestiere, spingendosi nella psicosi del condannato al patibolo morale. E’ suggestivo il modo in cui Alesi combina il respiro e la voce, aumentando la salivazione attraverso esasperati movimenti della bocca; il busto, prima irrigidito nei vincoli di una narrazione che esige assoluto rispetto, si spalma e si sospende in modo scomposto durante il delirio. Quella rigida compostezza si scioglie negli spasmi degradanti di una carne abietta, tremano le ginocchia; le mani, prima quasi invisibili, diventano strumento privilegiato per interagire con la sbarra di ferro freddo e spietato. La Sinigaglia sceglie un accompagnamento da masquerade in cui gli archi assieme accrescono l’estasi dell’ “ateo impunito” che si fa beffe di sé, smarrendosi nel dubbio e ritrovandosi in un’esistenza incosciente.
In un trionfo di energia convulsa e disperata, l’ultimo inno alla vita gli fa tremare anche le guance. Infine tornano le gocce e l’immobilità dei tubi concentrici; dal luogo placido delle ombre, un soffio che muove i fogli appesi e logori del romanzo. La spirale al centro della scena assume valore simbolico di ripiegamento sull’origine, mentre ritorna ossessiva la domanda iniziale: cos’è questa famiglia Karamazov? E qual è la verità, in un reale che ha la stessa sostanza dei fantasmi?
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