
Un “Novecento” bariccocentrico
«Non recitare, non spiegare, non diventare un personaggio. Leggere un testo, quel mio testo», questi i propositi alla base di Novecento (di A. Baricco, T. Arosio, E. De Leo e N. Tescari e con Alessandro Baricco), andato in scena la sera del 19 dicembre, per la prima volta, al Teatro Fraschini di Pavia.
Il prodotto finale, nel suo complesso, è godibile e pare essere stato apprezzato da buona parte del pubblico che ha riempito la sala (l’evento ha registrato il tutto esaurito in brevissimo tempo), merito soprattutto del testo, uno dei più apprezzati tra quelli scritti da Baricco. Si tratta di uno spettacolo leggero che dà l’opportunità di rivivere – o vivere per la prima volta, per chi Novecento non l’avesse mai letto prima – le emozioni contenute in quel testo, in modo differente.
In quest’ottica, risulta discutibile la scelta delle musiche, che in alcuni momenti diventano un pesante freno all’immaginazione, e, in altri, cozzano col testo. Le due problematiche si fondono, ad esempio, durante la scena del “duello” tra Novecento e Jelly Roll Morton. Viene narrato di un uomo che lascia tutti a bocca aperta sfruttando, come nessun altro, gli ottantotto tasti del pianoforte e la mente dello spettatore resta affascinata dal mistero della musica del più grande pianista del mondo e si immagina suoni sorprendenti, che non esistono nella realtà; poi però parte un breve e normalissimo pezzo al pianoforte, accompagnato da percussioni, che spazza via tutta la magia.
Nel complesso ciò che più lascia perplessi è la scelta di fondo, quella di mettere in scena uno spettacolo completo, con un testo teatrale, una scenografia – anche alquanto complessa –, delle musiche originali e degli effetti sonori (molto suggestivi in alcuni punti, fuori luogo in altri), una regia chiara e dei movimenti scenici studiati, ma senza l’attore, sostituito prepotentemente da un autore a cui evidentemente non basta più vivere solo nelle parole e decide di prendersi tutta la scena.
Baricco scrive: «Era da un po’ che covavo questa idea di provare, una volta, a leggere io, nei teatri, Novecento. Dopo vent’anni di messe in scena, in ogni parte del mondo, con tutti gli stili, con artisti completamente diversi uno dall’altro, ho pensato che tornare un po’ alla voce originaria di Novecento potesse essere una cosa interessante, per me e per il pubblico. Un modo di riascoltare quella musica col sound che avevo immaginato per lei». Il concetto è interessante: avere l’occasione di ascoltare un testo esattamente come l’autore l’aveva inteso, ma la decisione di non voler né recitare, né spiegare comporta un problema di fondo grosso come il piroscafo Virginian: la voce di Alessandro Baricco, che legge un testo – teatrale a tutti gli effetti – non riesce ad essere «la voce originaria di Novecento». Quella “voce originaria” che esiste nella testa dell’autore non viene trasmessa, potrebbe essere trasmessa difatti solo attraverso la recitazione, oppure alla spiegazione dell’autore stesso. L’unico modo per raggiungere il fine prefissato dello spettacolo sarebbe stato proprio «spiegare» al pubblico, o il recitare di un attore, cioè sarebbe stato possibile solo variando totalmente l’impostazione dello spettacolo stesso.
Viene spontaneo allora chiedersi quali siano i motivi di una simile impostazione, se sia questa dettata da una strategia di comunicazione – perché un Baricco legge Baricco attira sicuramente più di un Novecento qualsiasi – o da una spinta a uscire dalle convenzioni per sperimentare qualcosa di nuovo e stabilire un rapporto il più possibile diretto con il pubblico (seguendo la scia dell’evento di lettura di Furore di Steinback proposto dapprima al Salone del libro di Torino e poi allo spazio MRF di Torino Mirafiori accompagnato da una selezione musicale dal vivo di Francesco Bianconi dei Baustelle) o ancora, dalla voglia di riscoprire uno dei suoi migliori testi davanti e assieme agli estimatori, suoi e dell’opera. Ma potrebbe anche, più semplicemente, trattarsi di puro “egocentrismo”, non da intendersi necessariamente in maniera negativa, dal momento che esso comporta l’offrire al proprio, affezionato, pubblico, qualcosa di molto gradito. A questi interrogativi nessuno, purtroppo, se non forse il solo Baricco, può dare risposta certa.
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