
Il trionfo della volontà di Annagaia Marchioro: “Fame mia: quasi una biografia”
La fame non è mai soltanto fame di cibo. Quando la voglia di vivere è così tanta e così generosa da non poterla sopportare a certe condizioni, il desiderio si volge verso vuoti assenti. Annagaia Marchioro, in scena al Teatro Leonardo MTM di Milano, racconta la storia di una salvezza, disperatamente voluta, che comincia a trionfare nella penombra di un palchetto di provincia.
La fame non è mai soltanto fame di cibo: è fame di vuoti che si riempiono, di fiumi che rompono gli argini, di pozzanghere che riflettano la luce. E il cibo, ci insegna questa “Biografia della fame”, è un cibo istintivo, che nutre e diventa energia, ed è un cibo emotivo, che alla stregua di un’epifania proustiana rievoca memorie confortanti, gioie inattese e ormai smarrite.
Annagaia Marchioro in “Fame mia: quasi una biografia”, libero adattamento del romanzo di Amèlie Nothomb, per la regia di Serena Sinigaglia, ci confessa di aver vinto “Il primo premio nella lotteria della fame”, e comincia proprio da sé, dall’infanzia trascorsa in un Veneto rustico e mangereccio.
La piccola Annagaia, le guance paffute e purpuree, è la divinità in possesso dei sensi. Quando il gusto è solleticato e il palato contento, sente crescere un dio universale: l’esistenza, l’essere e il sentirsi vivi in una forma di godimento semplice e istintuale. Nella voracità con cui una mela compare e viene presto inghiottita, il monologo diventa un coro a più voci, e le vediamo, lì, tutte in scena in un corpo solo, le figure parodiche che alla Sinigaglia servono per far sorridere con una peculiare malinconia suscitata dall’identificazione emotiva: riconosciamo i pranzi della domenica alticci, le zie sorde e gli zii litigiosi, un padre inetto ma gentile, una mamma ipocondriaca e poco incoraggiante; su tutto regna un’abbondanza materiale e la gratitudine imperitura della nonna, le ripetizioni calde di una litania che è un inno alla gioia pieno, vivo, gaudente. In bilico come un chiodo, ma qua, sempre qua.
E mentre Annagaia cresce, la divinità che in lei non è mai appagata, deve confrontarsi con altre religioni, con i pentimenti e i castighi, e quella fiamma che aveva agitato la protagonista in balli vorticosi e tripudi di popcorn, si spegne. La frenesia diventa cenere, costretta nelle grinfie di un senso di inettitudine crescente. Il cibo è ora cibo logico, piegato alle ragioni severe di un’adolescente esitante, e così la fame di pagnotte e brioche viene placata dalle ambizioni frustrate della ballerina, e dall’elogio del fritto napoletano si scivola quasi senza colpo ferire nella prima delusione d’amore. Si è troppo magri, troppo alti, troppo ricci e troppo presenti, troppo vivi, troppo invisibili: ogni estremo si fonde per generare il nero che inghiotte la divina coscienza di stare al mondo. E se si ha fame di un tutto sempre troppo lontano, meglio cibarsi di assenze.
La regia, che aveva lasciato la Marchioro liberamente immensa sulla scena, rende questo gigante entusiasta un’ombra scarna e pallida, e con la delicatezza di una riscrittura testuale consapevole e accorta, si compie il viaggio, spesso censurato, per il disturbo alimentare: il freddo paralizzante, la tristezza cocente, l’iperattività, la compensazione vana, mentre ci si affanna per fare e fare e costruire talmente tanto da scomparire in mezzo alle negazioni. E quella voglia di vivere, così tanta e così generosa da non poterla sopportare, non a certe condizioni, è meglio lasciarla andare, e farsi piccoli, nello spirito prima che nel corpo, silenziosi, talmente impercettibili da non poter più sbagliare.
La tragedia dura un attimo, e l’attrice regge bene la variazione di colore, prima di ricondurci verso quei lidi che sembrano appartenerle di più: la celebrazione gloriosa del qui e ora, e le mille strade per giungervi. Con una prova attoriale in cui movimenti parchi e ben studiati accompagnano modulazioni di voce credibilissime, la Marchioro ricomincia a celebrare la salvezza, che nel caso di Annagaia si è materializzata in un maestro di teatro criptico e malinconico: il cuore congelato ricomincia a battere, la giovane diventa blu di persia e rosso borgogna nei training, e nell’odore familiare dei costumi e nell’intimità delle quinte, ritrova la vita, nel preciso istante in cui sceglie di farlo.
“Fame mia: quasi una biografia”, che sarà al Teatro Brancaccio dal 24 al 27 gennaio 2019, è, per dirla con le parole dello psicanalista Massimo Recalcati, un “ritratto del desiderio”: un desiderio animalesco e sincero, indotto ad eclissarsi in una dimensione simbolica in cui il rifiuto di soddisfacimento diventa una disperata richiesta di aiuto, e il desiderio reale è soltanto quello di essere riconosciuto dall’Altro fuori di sé. Quel tavolo, simbolo di incontro e condivisione, e di rifiuto e disprezzo, con la Sinigaglia muta, lento e impercettibile, nella cornice ideale di un Arlecchino affamato e implacabile. E si rimane qui. Attaccati al chiodo, ma qui.
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