
L’Eclisse che non può essere: intervista a Carlo Michele Schirinzi
“L’eclisse è un atto di morte, un decesso che avviene nel vuoto, ma se il cielo si assenta si ha la tragedia definitiva ossia l’inattuabilità del morire”. Michele Schirinzi, vincitore della Sezione “Luciano Emmer dell’EX|ART Film Festival, racconta l’Arte e la vita del suo maestro, Romano Sambati. E in ogni pennellata, la morte è inevitabile rinascita.
E’ trascorso quasi un mese dall’edizione 2018 dell’EX|ART Film Festival di Pavia. Il concorso è rivolto a quei giovani filmmaker italiani e stranieri che entrano in contatto con i protagonisti della scena culturale e artistica contemporanea, nell’ambito del Cinema, del Teatro, della Performance, della Danza, della Musica e delle Arti. La rassegna, attraverso una sinergia virtuosa tra le produzioni artistiche e le immagini che le raccontano, promuove la cura e la conservazione della memoria artistica contemporanea. Tra proiezioni e tavole rotonde, ad aggiudicarsi il primo premio per la Sezione ufficiale “Luciano Emmer” è Carlo Michele Schirinzi, regista di Eclisse senza cielo.
D: Come sei arrivato a concepire “Eclisse senza cielo” e cosa sentivi la necessità di raccontare?
R: Le mie opere non vogliono mai raccontare ma far sentire, prima a me stesso, qualcosa che non sempre è colta dagli estranei, ossia da chi non è disposto a far cedere i pregiudizi culturali per abbandonarsi completamente alla visione lasciandosi attraversare da essa. Questo film nasce come omaggio, non all’artista bensì all’uomo Romano Sambati, mio professore di disegno al Liceo Artistico, il primo che mi ha incoraggiato a seguire la strada delle passioni.
D: Tu parli di persona e non di artista, eppure è innegabile che il processo creativo è protagonista indiscusso del film. Come sei riuscito a mantenere l’equilibrio, cioè a non far soccombere l’individualità rispetto alla centralità del momento puro dell’Arte?
R: Si tratta di un omaggio viscerale a una persona, anche artista, a cui ho chiesto di essere se stesso e di non tener conto della mia presenza nel suo laboratorio, senza mai dare indicazioni di regia. Quando in fase di ripresa spii qualcuno devi essere disposto a diventare quel qualcuno: l’occhio non si è limitato a osservare ma, come in un rapporto tra corpi, si è allacciato alla materia, e la materia in questione è la vita di Romano con i suoi dolori, intrinsecamente legati ai suoi angeli caduti, ai suoi miti (perché dalla propria biografia non si può mai fuggire).
D: Quando Sambati armeggia con i suoi strumenti di lavoro ci sembra quasi di vederlo in cucina, esempio emblematico di quotidianità. Nel tuo insinuarti nella sua intimità, hai riscontrato una certa reticenza o è accaduto spontaneamente?
R: Non è stata un’operazione semplice, Romano non ha mai svelato le sue tecniche e le sue ricerche sperimentali, ho cercato di raccogliere ciò che avviene prima della fine (dell’opera), ciò che ha sede nell’atto e non nell’azione del fare, questo lo ha inizialmente messo sulla difensiva ma, nelle due settimane di ripresa, ha cancellato del tutto mia presenza – lavoravo da solo, camera e suono, ponendo la massima accortezza a non invadere il suo campo vitale: lo osservavo dosare gli ingredienti, proprio come in cucina o in un antico laboratorio di chimica.
D: Instaurare una relazione con la materia ha sempre esiti incerti. Vediamo nel film le opere in fieri, che si trasformano in qualcosa di inaspettato, quasi risucchiando le mani del loro creatore. Ci sono stati momenti in cui gli sviluppi del lavoro sono stati inattesi o in cui il guizzo dell’arte è venuto a mancare?
R: Il processo creativo non può essere pre-scritto perché è organico, si progetta nel farsi, per questo è impossibile affidarsi a una sceneggiatura (non lo faccio mai, utilizzo solo ‘pizzini’ con pensieri e divieti). Sambati è un profondo conoscitore della materia e delle sue forme che, come ricorda Focillon, hanno una loro esistenza indipendentemente dagli artisti che le realizzano ma si servono delle loro mani per venire alla luce, donando alla mano la stessa importanza, se non superiore, della mente: in tutto questo ero consapevole di dover compiere un salto nel vuoto, la vita di Romano, ed ero disposto a sfracellare le mie membra per poi raccoglierne i resti e ricomporli per la visione altrui. Gli atti, le battute d’arresto e le sospensioni, le apnee e le improvvise accelerazioni del fare artistico, nel film hanno generato i bui, i silenzi, i tagli privi di dissolvenze e gli stupri sonori.
D: Di fronte all’assenza di parole interviene un utilizzo sapiente delle immagini: passiamo da forme immateriali che ci riportano in crateri, deserti, ghiacciai, alla concretezza di un dito flesso. Questo scorrere è poi ritmicamente interrotto da suoni che arrivano violenti, da clangori, stridii, quasi a lasciar presagire l’incedere minaccioso dell’impulso d’arte. Hai voluto così riempire un film privo di linguaggio?
R: Il problema non era riempire, bensì svuotare. Questo film è un piccolo saggio sullo scalpo, sul togliere la pelle, sulla sindone (impronta-scalpo d’un corpo morto), sulla sottrazione: il verbo è sottratto a favore del suono, la natura è sottratta a favore della materia manipolata da Sambati, l’azione è sottratta a favore dell’atto. I paesaggi non possono essere quelli (visti da occhi) superficiali, ma quelli intimi, sedimentati nelle polveri, nella natura sbriciolata, disintegrata e rimodellata da un Creatore inconsapevole. Il suono accarezza e violenta le immagini, come l’artista accarezza e bagna sensualmente la creta per ridare vita all’angelo caduto, o strappa pelli cartacee per poi, con estrema delicatezza, riassettare i frammenti in un giaciglio che accoglie il corpo morente. Il suono dell’acqua, eco uterino materno, è ferito da lame metalliche che aprono il volo di colombe in cieli che accecheranno quest’Icaro testardo.
D: Questa luce la vediamo nei tuoi soli, che poi sembrano diradarsi e diventare iride. Spesso Sambati guarda in solitaria davanti alla finestra: forse questa arte così sacrale e viscerale richiede un sacrificio estremo? L’artista paga il prezzo della solitudine di un eremo?
R: Non è necessario, ma spesso alcune ricerche artistiche così lineari e fortunatamente ostinate richiedono scelte dure e ben precise: Sambati ha deciso di percorrere questi sentieri segnando, sin da subito, la sua vita. Ha sperimentato a lungo il linguaggio, una sperimentazione non fine a se stessa ma animata dall’incessante e svilente lotta per tramutare in immagine le sue sensazioni: i suoi occhi non sono lo specchio di una solitudine, ma il brulicante campo in cui le riflessioni si creano e disfano, in maniera del tutto naturale perciò spietata.
D: E allora veniamo al dunque: perché questo titolo?
R: Le frasi che compaiono nel film sono ispirate ai titoli delle sue opere, “Eclissi” è una serie di lavori che amo molto. L’eclisse è un atto di morte, un decesso che avviene nel vuoto, ma se il cielo si assenta si ha la tragedia definitiva ossia l’inattuabilità del morire, della fuga dal dolore e si resta impigliati tra luci abbaglianti e bui inespugnabili.
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