
La contemporaneità? Solo un Pezzo di plastica
A partire dal 23 e fino al prossimo 27 ottobre il Teatro Nazionale di Genova ospita una propria produzione: Pezzo di plastica, ovvero la versione italiana della piéce di Marius von Mayenburg, dramaturg tedesco in ascesa, per la regia di Simone Toni.
La scena che si presenta all’occhio dello spettatore è spoglia ma fin da subito carica di significati: interno giorno di una casa come tante altre, pochi semplici elementi d’arredamento bianchi, ricoperti però da un consistente strato trasparente, plastico, artificiale. Incelofanati si direbbe, ma forse anche intrappolati in una ragnatela sottile e densa. Sono un evidente correlativo oggettivo dei personaggi che li vivono: Ulrike e Michael sono una coppia benestante (lui medico, lei assistente personale dell’artista performativo Haulupa, che con loro vive), hanno un figlio adolescente, Vincent, e neanche un minuto per occuparsi della sua crescita o della casa. Decidono così di assumere Jessica, una giovane colf che, anche se nelle loro intenzioni iniziali avrebbe dovuto solamente svolgere un ruolo marginale ed il meno possibile invadente, finirà per sconvolgere completamente gli equilibri familiari attraverso una climax ascendente.
Dramma borghese contemporaneo e fedele denuncia delle ipocrisie che rappresenta, l’opera riesce nell’intento di scuotere, anche attraverso un umorismo sagace, la coscienza dello spettatore. Compito affatto semplice, data la natura assai complessa ed a tratti anche confusionaria del testo, che imponendo un ritmo serrato agli attori, eccede pur tuttavia nella estrema varietà e velocità dei problemi trattati, che risultano, spesso, appena abbozzati, rischiando di passare per poco più che accattivanti prese di posizione radical chic. Un rischio, per riflesso, corso spesso anche dagli attori, che però riescono sempre a tenere alta la tensione, attraverso una prova corale che esalta la precisione e la preparazione del cast.
La regia, infine, anche se non sempre pienamente efficace, è chiara: attraverso meccanismi intermediali, interazione con la scenografia da parte del cast e un forte interesse nei confronti del pubblico quello che viene fuori è una tragedia contemporanea che ricorda i disturbanti film di Haneke (il meccanismo delle dirette attraverso lo smartphone, in questo senso, sembra quasi un tributo a Happy End) e la grottesca autodistruzione umana di Tutti al macello di Boris Vian, in una realtà contemporanea priva di una minima speranza di felicità, senza lieto fine.
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