
“Identity”, molteplici identità di un genere cinematografico
Un film facilmente inscrivibile in un noto universo di genere può rivelare spunti interessanti proprio per il modo in cui si colloca in quel preciso e riconoscibile contesto. Mi sembra essere il caso di Identity, thriller del 2003 diretto da James Mangold. Sono molti i dettagli che lo fanno rientrare perfettamente nelle marche di genere: una inquietante e indecifrabile nenia apre e chiude il film; dieci personaggi sconosciuti, dall’identità e dai pregressi poco chiari, si trovano bloccati in un motel senza contatti con l’esterno; una catena inspiegabile di omicidi coinvolge i personaggi deviando continuamente i sospetti dall’uno all’altro; qualche sparuto flashback (sia visivo che dialogato) porta vagamente alla luce qualche dettaglio non sufficiente a comprendere la situazione.
In tutto ciò niente di nuovo, sono i parametri classici del giallo a cui direttamente si ispira il film, prendendo come spunto Dieci piccoli indiani di Agatha Christie. Tuttavia, anche a questo primo livello, il film reinterpreta la vicenda letteraria plasmandola su un immaginario di genere che è totalmente cinematografico. In particolare l’ambientazione di Psycho (1960) è espressamente riconoscibile nel motel e nell’incessante pioggia che accompagna la vicenda e la scena “della porta” di Shining (1980) sembra rielaborata in una sequenza a metà film. Anche certe suggestioni – forse meno esplicite – al cinema thriller di fine anni ’90 e inizio Duemila di Fincher o del primo Nolan nutrono considerevolmente il clima che si respira nel film di Mangold. Va chiarito che tutti i rimandi appena indicati non vengono usati in modo ingenuo e gratuito dal regista, nemmeno quando è presente un luogo comune moribondo come quello degli indiani uccisi nel luogo dove si svolge il massacro. Teniamo, però, questa considerazione per la conclusione. Prima è importante osservare la struttura di funzionamento del film.
L’inizio è doppio sia stilisticamente che narrativamente. L’apertura del film è sonora: una nenia (la poesia Antigonish di Hughes Mearns) accompagna i titoli di testa fino ad adagiarsi su alcuni documenti che si identificano in modo frammentario, con un gusto quasi fincheriano per il dettaglio minuscolo. La macchina da presa sta addosso ad articoli giornalistici e documenti fotografici che si susseguono nella confusione dello studio di un detective, mentre il sonoro riporta l’interrogatorio di un certo Malcom Rivers. Si tratta di una sequenza che cerca di fare ordine nel caos per poter arrivare a una lettura complessiva di alcuni documenti frammentari. Il secondo inizio si apre sul motel verso il quale convergono tutti i dieci personaggi principali, le cui azioni precedenti vengono ricostruite con una cascata di flashback in successione. Una volta radunati e isolati tutti loro può iniziare il massacro. Tuttavia ci sono diverse cose che non tornano in questa parte del film: la pioggia sembra infinita e quasi surreale, la fuga dal motel da parte del detenuto si risolve in un ancor più surreale ritorno alla partenza e, infine, i cadaveri dei morti svaniscono completamente nel nulla.
Il secondo registro viene sporadicamente alternato al primo come se questi dovessero incontrarsi seguendo il meccanismo della detection. L’incontro avverrà, ma si comprenderà anche come i due registri siano paralleli e non appartengano al medesimo reale. Il secondo, infatti, risponde al funzionamento della mente e dell’inconscio e in tal senso si spiegano le derive surreali pur fortemente radicate in un contesto apparentemente reale. In questo senso, il film si dimostra interessante per il ragionamento che propone sul funzionamento della psiche in rapporto al visibile cinematografico, accostandosi a un film come Memento (2000). Se il film di Nolan realizzava nella sua struttura il malfunzionamento della mente traumatizzata attraverso il montaggio, Identity si propone di raggiungere quell’obiettivo basandosi su un registro che non differisce molto da quello “della realtà”, ma sul quale vengono innestate raffinate ambiguità che lo mettono in discussione. Inoltre, come anticipato, il registro soggettivo “della mente” fa appello quasi esclusivamente al precisissimo immaginario cinematografico di riferimento che si è citato sopra. Perciò, per quasi tutto il film abbiamo a che fare con qualcosa che appartiene al regime del “già visto”. A proposito di già visto, la risoluzione di tutto risiede nell’infanzia che, come già nel cinema di Carpenter (Halloween, Villaggio dei dannati), si fa portatrice di angoscia, trauma e pericolo.
Luoghi, stili, dinamiche, temi e tipologie di personaggi di tanto cinema thriller statunitense confluiscono nella mente di un criminale malato che gioca letteralmente a crearsi un suo film, destinato a frantumarsi a causa delle molte (ma non troppe) falle della mente; non destinato, però, a fallire, visti gli effetti che le sue azioni – in bilico fra un mondo e l’altro – hanno sulla realtà. Le citazioni e i riferimenti, dunque, appartengono al registro delle immagini di un soggetto e non propriamente al film stesso, che non possiede luogo di svolgimento così ben delineato. Sono tutti frammenti ben sedimentati di tante identità di un certo genere cinematografico dentro all’immaginario di una mente che, come tante, si è a lungo nutrita di quel cinema.
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