
Synecdoche, New York – Classicità senile
Uscito nel 2008, Synecdoche, New York è appena un quindicenne. Eppure pesa sulla masochistica memoria cinefila come un macigno atemporale. Una roccia dotata del peso del classico e del senile. Pur se fattualmente un teenager, Synecdoche è un film vecchio. Non perché intaccato dal tempo trascorso – nella classicità, come nella demenza senile, il tempo non conta e non si conta. Ma in quanto fisiologicamente vecchio. Nel suo comportamento, nel suo andamento: un film che arranca stanco, tra deliri di morte, guerra, malattia. E che allo stesso tempo dà prova di scalpitante agilità, correndo a un ritmo sfrenato verso la rovina.

Caden Cotard
Questo paradossale doppio decorso risponde a un postulato fondamentale: il film di Kaufman – qui al suo esordio alla regia, ma con alle spalle quasi un decennio di sceneggiature che definire brillanti è eufemistico1 – è tutt’uno con il suo protagonista. Inizialmente un suo doppio, a lungo andare una sua ramificata propaggine, che si problematizza in un’effusione incontrollata d’immagini che mira – miseramente – a restituire la personalità di un uomo: Caden Cotard. In quest’ottica, inquadrare il personaggio interpretato da Philip Seymour Hoffman è di un’importanza cardinale. Caden è un regista di teatro, che inebria il suo narcisismo beandosi degli applausi dell’alta borghesia, che sfoga la sua essenziale insoddisfazione e insicurezza vomitando tutto il suo malessere su chiunque gli capiti a tiro (con una particolare predilezione per la moglie Adele). Tutelato da un apparato produttivo-critico che lo salvaguarda in quanto genio, ammantato da una ricercata ipocondria isterica così ben simulata da convertire il realismo in realtà. Ma, soprattutto – questo il midollo strutturale di Synecdoche – corazzato da un’opera cinematografica che non solo giustifica, ma venera ogni sua disfunzionalità.
Per affrontare l’opera di Kaufman potremmo ricorrere alla nozione pasoliniana di «soggettiva libera indiretta»2. Il regista non si limita a pedinare pedissequamente Caden, ma parla la sua lingua. O, per essere più corretti e viscerali, ne incarna il malessere. Assumendo semioticamente su di sé tutte le idiosincrasie del suo protagonista, trasmutandole alchemicamente in stile. L’incedere paratattico del montaggio di Robert Frazen, la fotografia cinerea di Frederick Elmes3, i costumi e il trucco di Melissa Toth e Judy Chin. Tutto confluisce in una morbosa e totalizzante atmosfera di apocalisse, che Kaufman infarcisce di immagini (e parole) di malattia, morte, putrefazione. Tutto ha origine in Caden. Quanto vediamo è la materializzazione dei suoi desideri, dei suoi deliri, delle sue paure. Il male narcisistico di Caden esonda nel male globalizzato del mondo cinematografico di Kaufman. Uno stringente legame sineddochico concatena il personaggio e quel tutto cinematografico che lo comprende ed esprime.

Charlie Kaufman
Solto il rapporto Caden/Synecdoche possiamo spostarci su un altro piano, parallelo: quale vincolo lega Caden allo stesso Kaufman? Cosa spinge Kaufman a fare del suo primo film un tutt’uno con un simile soggetto? Potremmo rintracciare nella sua produzione sceneggiatoriale precedente un interesse più o meno dissimulato per la prassi creativa, per il “crafting” mitopoietico. Dalle figure d’artista più canoniche che abitano Essere John Malkovich e il complementare Il ladro di orchidee (Adaptation, dir. S. Jonze, 2002), passando per Human Nature (dir. M. Gondry, 2001) e giungendo a Se mi lasci ti cancello. In questi ultimi al discorso diretto sull’arte si sostituisce, obliquamente, una riflessione sulla modellazione – artistica – della realtà: Nathan Bronfman (Tim Robbins) e la sua ossessione per piegare la natura alla cultura del galateo; la Lacuna Inc. e la sua utopistica promessa di epurare la memoria dai traumi del passato. La vita intesa come – problematicissima – materia prima dell’arte. Un’arte velleitaria, fallimentare, imprecisa. Votata al fallimento.
Simulacrum
Su questo tragitto filmografico, atto a delineare un sogno impossibile, si colloca anche la magnum opus di Caden, la cui messinscena occupa la porzione più ampia di Synecdoche. Un progetto teatrale le cui ambizioni farebbero impallidire il Ronconi de Gli ultimi giorni dell’umanità: Caden intende realizzare un calco 1:1 della propria vita. Come quest’ultima, abitata da centinaia di personaggi e estesa per innumerevoli ambienti; caratterizzata da infiniti potenziali e incertezze, poiché eternamente in fieri. Allestita in un capannone industriale in disuso che pare non avere confini e finanziata dalla MacArthur Fellows Program (il cosiddetto “Genius Grant”), la ricerca di Caden procede imperterrita e spietata, per decenni. Prosciugando le energie vitali di chiunque prenda parte al progetto, Caden incluso. Mentre il mondo fuori si dissolve, dilaniato da chissà quali catastrofi.
Non distinguiamo più tra l’allestimento delle prove e una realtà irrimediabilmente mistificata. Tra i tanti titoli proposti dal regista per il suo spettacolo-labirinto, c’è appunto quello di Simulacrum. Se da un lato dello specchio Caden sovrascrive se stesso, costruendo una gigantesca giostra funeraria in cui marcire fino all’ultimo dei suoi giorni, dall’altro Kaufman diluisce la propria drammaturgia in uno sfacelo metatestuale e autoriflessivo. Diluendo la puntualità delle idee nell’informità della convivenza di infiniti personaggi e situazioni che si sovrappongo e intersecano entropicamente. Oltre ogni quarta parete, ce n’è sempre una quinta da sfondare. Fino a quando non si sono esaurite le forze, o il tempo (o il budget). Senza aver svelato o raggiunto nulla. Se non l’illusione fatale di aver finalmente intuito la direzione dello spettacolo. Stroncata da un assolvente bianco opalino, e da un imperativo voice off: «Muori».
Con Synecdoche, New York Charlie Kaufman de-idealizza il processo creativo. Lo riconduce alla sua matrice corporale e patologica. L’ispirazione è ipocondria.
Note
1 Da Essere John Malkovich (Being John Malkovich, dir. S. Jonze, 1999) a Se mi lasci ti cancello (Eternal Sunshine of the Spotless Mind, dir. M. Gondry, 2004).
2 Elaborata in Empirismo eretico (Garzanti, 1972), potremmo sinteticamente definirla come l’assimilazione da parte del cinema della tecnica letteraria del discorso indiretto libero.
3 Tra i suoi lavori più interessanti – e che stabiliscono con Synecdoche, New York un certo rapporto di continuità estetica – ricordiamo Eraserhead (1977) e Velluto blu (Blue Velvet, 1986) di David Lynch, e Storytelling (2001) di Todd Solondz).
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