
Her – Perché non invecchierà mai
Ricordo perfettamente la prima volta che ho visto Her. In quegli anni Spike Jonze era il mio regista preferito, amavo soprattutto Essere John Malkovich e Il ladro di orchidee: film strani, da decriptare, da guardare con concentrazione. Pensavo che quella fosse un po’ la sua firma. Rimasi sorpresa perché Her, invece, era tutta un’altra storia. Si trattava della prima sceneggiatura scritta esclusivamente da Spike Jonze e, a differenza degli altri lungometraggi diretti da lui, mi aveva buttato dentro a una dimensione non così criptica né così difficile da capire. Anzi, ero stata scaraventata nella storia sin dall’inizio e una volta arrivata ai titoli di coda non potevo fare a meno di guardarmi intorno e chiedermi cosa fosse successo, se davvero non avessi accompagnato Theodore (il protagonista) e non fossi appena tornata. Quando riaccesero le luci nella sala del cinema, ebbi la sensazione che quel sentimento fosse unanimemente condiviso da tutti gli spettatori.
Her usciva nel 2013 e nei suoi primi dieci anni è invecchiato benissimo, nonostante – o forse proprio per – l’avanzamento tecnologico e gli sviluppi dell’intelligenza artificiale, che è la seconda grande protagonista della storia. Ma, se viviamo in un’epoca di trasformazioni sempre più rapide e disruptive che dilatano le differenze tra una manciata di anni e l’altra, come è possibile che un film ambientato nel futuro sia ancora tanto attuale e riesca ad essere così emotivamente coinvolgente?
Principalmente per tre motivi.
Il futuro di Spike Jonze è un quadro familiare
La trama di Her si riassume nella storia d’amore tra Theodore (Joaquin Phoenix), un uomo in procinto di divorziare da sua moglie, e Samantha (Scarlett Johansson), un’intelligenza artificiale che appare nel film come la voce femminile di un sistema operativo, acquistato e personalizzato da Theodore stesso.
Tutto si svolge in un futuro non ben definito ma prossimo, in una Los Angeles ipertecnologica con skyline nuovi ma plausibili. È qui che la maestria di Jonze incontra quella del direttore della fotografia Hoyte van Hoytema (Interstellar, Dunkirk, Oppenheimer, per dirne alcuni): quello di Her è un avvenire che non siamo abituati a vedere al cinema.

Nel cinema, infatti, il futuro è quasi sempre pessimistico, apocalittico, che annuncia la punizione dell’uomo o che migliora alcuni aspetti della sua vita, mettendone in pericolo altri. È pieno di blu e di colori freddi, che ricordano il progresso tecnologico. Spike Jonze e van Hoytema, invece, creano il loro futuro ispirandosi al passato. Tutto ci ricorda qualcosa di familiare. I vestiti dei personaggi sono semplici e hanno un’anima vintage. La città ha una forma nuova e allo stesso tempo si presenta come un mix tra le attuali Los Angeles e Shangai. Le nuove tecnologie hanno forme che conosciamo già: Samantha parla da un dispositivo che ricorda vagamente un portasigarette d’argento, i computer sembrano eleganti cornici, i cartelloni pubblicitari sono video senza brand e senza claim. Niente del futuro di Jonze e van Hoytema ci spaventa. È pieno di rossi e di rosa, i colori della passione e dell’intimità.
Per cui, il primo elemento che ha permesso a Her di invecchiare bene è proprio la capacità che ha di farci concentrare sulla dimensione umana del racconto. Il futuro diventa unicamente un escamotage narrativo che rende più plausibile la storia, ma allo stesso tempo lo svolgimento dei fatti non dipende dalla cornice temporale in cui accade.
L’intimità e la solitudine sono rappresentate con cura
Trasmettere il senso di solitudine, nel cinema come nell’arte, è difficilissimo. L’istinto dello spettatore, infatti, non è tanto quello di immedesimarsi, quanto quello di provare tenerezza nei confronti del personaggio che prova solitudine. La particolarità di Her sta proprio nel legame di intimità che si crea tra il protagonista e chi guarda. A pensarci bene, il film si costruisce interamente su questo legame e ci rende testimoni della relazione tra Theodore e Samantha, invitandoci a porre l’attenzione sull’aspetto sentimentale.
Con Her, Spike Jonze crea un vero e proprio mondo, che si apre a noi attraverso le immagini: l’empatia che nasce tra lo spettatore e Theodore è infatti il frutto di una grande cura dei dettagli e di uno studio minuzioso della composizione delle inquadrature e dei colori. L’uso insistente dei primi piani, ad esempio, ci costringe a fidarci delle espressioni di Theodore e rende naturale per noi la sensazione di vivere i suoi spazi e di sentire le sue emozioni.

Questo è forse l’aspetto più interessante di Her, ed è quello che ne determina in maniera decisiva l’immortalità: il modo in cui sfrutta al meglio il suo medium – quello cinematografico – per rappresentare qualcosa di per sé intangibile, ovvero l’amore, portato allo stremo perché ancora più labile, quando coinvolge un uomo e un’intelligenza artificiale.
L’intelligenza artificiale di Jonze ha un’intelligenza emotiva
Eppure il primo pensiero che abbiamo quando ci ricordiamo che sono passati già dieci anni dall’uscita del fillm, è che se ai tempi si parlava in maniera sporadica di Intelligenza Artificiale, oggi si tratta invece di un argomento e, perché no, di uno strumento, che incontriamo quotidianamente. Ma, rispettando la scelta di Spike Jonze di concentrarsi sulla dimensione umana della storia, la particolarità di Samantha è quella di presentarsi come un’intelligenza artificiale incredibilmente emotiva, sorprendendoci. Come nei più classici film ambientati nel futuro, il rapporto tra uomo e macchina viene affrontato, sì, ma in modo nuovo.

Non è una macchina che distrugge, è piuttosto una macchina che guida Theodore verso la rinascita, verso la scelta di firmare finalmente i documenti del divorzio e di riscoprire la sua amica Amy. A differenza delle narrazioni futuristiche a cui siamo abituati, non c’è quindi un punto di non ritorno, c’è un punto di svolta. E a questo punto di svolta, Theodore ci arriva scegliendo di lasciarsi guidare dal flusso emotivo, che, se ci si pensa bene, è l’istinto umano per eccellenza.
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