
Tre colori: Film bianco – Il glaciale dolore della vendetta d’amore
Quali sono le reazioni dell’essere umano davanti al dolore? È questa la domanda focale che si pone Krzysztof Kieslowski quando si accinge a ideare e poi dirigere i suoi Tre colori, ovvero la trilogia di film (Film blu, Film bianco e Film rosso) che chiudono la sua filmografia e che hanno le stigmate di un vero e proprio testamento cinematografico che condensa tutta la poetica del maestro polacco.
Probabilmente non c’è tema più biblico e, in senso più lato, religioso del dolore. E un regista così avvinto ai nodi religiosi tanto da mettere sullo schermo (seppur televisivo) il suo personale Decalogo, non poteva non essere affascinato e quindi travolto dall’interrogazione umanissima e allo stesso tempo trascendente sul dolore, uno dei misteri più grandi che riguardano l’Uomo e, subito dopo (o prima?), Dio.
I suoi Tre colori scaturiscono da questo interrogativo e altro non sono che tre risposte umane diverse (non le uniche, ma tre delle più significative, almeno secondo l’autore) all’enigma del dolore. Se nel primo film, il Film blu, il dolore è totalizzante, incontaminato e inscindibile dalla vita in una spirale che tutto avvolge e tutto permea, nel Film bianco questi presupposti vengono stravolti completamente. Questa volta il dolore non rimane destino ineluttabile e condizione dell’essere a cui arrendersi senza lotta, ma è trampolino di lancio di una reazione o rivolta che sprigiona le sue peggiori tossine.
Karol (Zbigniew Zamachowski), parrucchiere polacco, ha sposato Dominique (Julie Delpy), affascinante e magnetica ragazza francese, ma appena sei mesi dopo l’unione Dominique chiede già il divorzio a causa dell’impotenza del marito. Karol si ritrova così a vagare per Parigi senza un posto dove stare, senza soldi, senza un passaporto per tornare in Polonia e con solo una valigia vuota, un paio di forbici e un pettine. Inaspettatamente, nella metropolitana di Parigi incontra Mikolaj, un polacco che gli offre la possibilità di tornare in madrepatria. Inizia qui una serie di grottesche peripezie che, in un modo o nell’altro, permettono a Karol di riuscire a tornare nella sua terra natia.

Proprio l’incontro con il freddo ma persuasivo Mikolaj cambia Karol e cambia il film. Se prima infatti il film procedeva con un ritmo compassato e interiore, dal ritorno del protagonista in Polonia acquista una frequenza narrativa fino a quel momento inedita e sancisce l’inizio del radicale mutamento del personaggio e il prospettarsi della sua vendetta d’amore.
Sebbene la fortuna non giochi un ruolo irrilevante nelle sue azioni, Karol si trasforma in un personaggio completamente diverso: da uomo inerte, debosciato e travolto dalle emozioni, diventa improvvisamente astuto, spregiudicato e risoluto. L’unica cosa che non cambia è l’ossessione per quell’amore totale e asfissiante per Dominique che continua a eroderlo: un’ossessione che si tramuta in volontà di vendetta. Allora non sarà impossibile vedere attraverso il nuovo Karol le fattezze di un Edmond Dàntes (alias Conte di Montecristo) spietato, ma allo stesso tempo estremamente fragile. Per un semplice motivo: quell’amore e quell’ossessione non sono mai finiti.
Infatti, l’amore che Kieslowski ci restituisce con il suo Film bianco è uno dei più viscerali e contraddittori, scostanti e intensi mai raccontati. Così come è contorta l’elaborazione del dolore di Karol: anni luce distante dalla versione incontaminata e purissima del Film blu. Così come assai distanti, all’interno del costante raffinatissimo lavoro psicologico sui personaggi, sono i ritmi con cui procedono le due diverse pellicole.
Ovviamente quando si parla di trilogie viene naturale fare paragoni; anzi, è giusto farli. Il Film bianco non raggiunge la grandezza mirabile del conclusivo Film rosso – un film che è capolavoro di sceneggiatura e regia in cui il dolore giunge a un processo di sublimazione assoluta attraverso un labirinto spazio-temporale che lo traferisce da una vita all’altra -, ma sicuramente si pone come risposta e contraltare significativo al Film Blu, il cui esito finale va in senso opposto rispetto a questa pellicola: uno sprofonda nell’oblio totale, l’altro è risolutivo per quanto non definitivo.

La forza di questo lavoro sta indubbiamente nella sceneggiatura e nei dialoghi, scritti a quattro mani con lo storico collaboratore e avvocato Krzysztof Piesiewicz. La storia, infatti, riesce a creare uno spartito molto dinamico e variegato in cui si passa (non sempre chiaramente) da black comedy a melodramma, da thriller ad avventura picaresca. Il tutto con una regia ordinata e per nulla invadente – com’è del resto quella di molti grandi autori che non hanno bisogno di chissà quale stratagemma per trasmettere quello che vogliono comunicare – che mostra la sua straordinarietà nella capacità di mettere in sintonia immagini e suoni – in pochissimi hanno saputo utilizzare le musiche in modo diegetico come Kieslowski – con l’interiorità dei personaggi. Quale migliore scenografia, per un film che vuole avere l’accecante lucentezza del bianco, delle sterminate e brulle campagne polacche ricoperte dal ghiaccio e dalla neve?
Film bianco è un film sull’amore e sul dolore. Quindi un film sulla vendetta d’amore che è glaciale e spietata, ma orchestrata da un uomo passionale e, fino alla fine, travolto dalle emozioni, nonostante provi a controllarle. Così da ricordarci che il bianco è sì il colore dell’uguaglianza, ma è anche quello del dolore accecante e della vendetta più glaciale.
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