
La vita dopo – Cosa resta, dopo la tragedia? | Intervista a Pietro Adami e Simone Gorla
Nella notte tra il 28 e il 29 luglio, dalle porte del carcere di La Spezia è uscito Luca Delfino. Soprannominato dai media “il killer delle fidanzate”, Delfino era stato condannato a 16 anni e 8 mesi di carcere per l’omicidio della fidanzata Maria Antonietta Multari, uccisa nel 2007 a Sanremo.

In realtà a Delfino è da sempre associata anche la responsabilità di un altro delitto, ufficialmente mai risolto e avvenuto nell’aprile del 2006: la sua precedente compagna, Luciana Biggi, era stata trovata in un vicolo di Genova con la gola tagliata. Terminato il periodo di detenzione previsto per lui dal processo, Delfino – riconosciuto ancora pericoloso dal tribunale – verrà ora accolto nella Rems (Residenza per l’esecuzione delle misure di sicurezza) Villa Caterina, a Genova Prà, per iniziare un percorso di riabilitazione. Proprio per questo motivo, nei giorni scorsi sono già iniziate le proteste: una cinquantina di cittadini si sono ritrovati davanti alla struttura per manifestare e portare l’attenzione sulla pericolosità di Delfino e sulle misure di sicurezza troppo deboli della Rems che lo ospiterà.

Ed è qui, nella vita che d’ora in poi aspetta Delfino, nella vita che aspetta tutte le persone toccate dalle sue azioni, che ha origine il podcast La vita dopo. Creata e diretta da Pietro Adami e Simone Gorla, giornalisti Rai, la serie – prodotta dalla TGR Liguria – si compone di 5 episodi, disponibili su RaiPlay Sound, che inizialmente ripercorrono la storia dei due delitti legati a Luca Delfino e nella seconda parte si immergono in un’analisi del processo e delle sue conseguenze, partendo proprio da quella notte tra il 28 e il 29 aprile 2006, da quel caruggio senza luce dove fu trovato il corpo di Luciana Biggi.

Nei giorni scorsi abbiamo contattato i due creatori del podcast, Simone e Pietro, che ci hanno spiegato la genesi di questo progetto, animato dal desiderio di osservare e raccontare la stretta attualità con uno sguardo più ampio: «Ci siamo avvicinati a questa storia con una serie di servizi nella programmazione regolare della TGR, in cui si raccontavano alcuni cold case ambientati in Liguria – racconta Simone Gorla – L’ambito era interessante e c’era il desiderio di provare ad allestire un podcast. Avevamo anche parecchio materiale in teca legato alla storia di Delfino: nastri, cassette e registrazioni degli anni passati che volevamo sfruttare e un buon modo per farlo sarebbe stato proprio questo». «La TGR ha iniziato solo l’anno scorso a fare informazione attraverso i podcast – aggiunge Pietro Adami –: è un campo ancora inesplorato e ci hanno dato carta bianca, con la possibilità di sperimentare senza il peso di un canone prestabilito, come invece esiste per il linguaggio televisivo dei telegiornali».

Se, infatti, la struttura narrativa di La vita dopo segue complessivamente la regolare successione cronologica degli eventi legati ai due delitti, il suo montaggio però non è ordinariamente lineare. Ogni episodio si apre con un incipit metanarrativo che mette in scena i due autori mentre si recano sui luoghi della storia che raccontano o inseriscono nel lettore le vecchie cassette (Betacam) da sbobinare, e si conclude con spezzoni dei telegiornali dell’epoca che gettano un ponte all’episodio successivo, anticipando senza svelare. Sono questi i momenti meno tradizionalmente documentaristici, e risultano molto efficaci dal punto di vista narrativo perché riescono a iniettare e alimentare una tensione costante nel ritmo (sempre veloce e senza cadute) della narrazione, portando alla luce la texture del mezzo narrativo che si è scelto. Si tratta forse di un’influenza proveniente dalla serialità audiovisiva? «Fin da quando ci siamo confrontati in fase di programmazione del podcast, quella di utilizzare tanti momenti live ci è sembrata una soluzione efficace – racconta Pietro Adami – Sicuramente la serialità televisiva ci ha influenzato, ma più a livello inconscio. In generale, soprattutto in un prodotto destinato alla fruizione audio, ci sembrava fosse importante far sentire anche dei momenti “dal vivo” che rendessero l’idea del contesto. Noi, da giornalisti televisivi, siamo abituati a raccontare per immagini, mentre qui, con l’audio devi restituire tutto ciò che non puoi vedere. E questa è anche la grande potenza del podcast, perché ti permette di immaginare molto di più rispetto a una visualità che a volte rischia di risultare bidimensionale: l’audio può essere più autenticamente tridimensionale». «Siamo abituati a raccontare quello che succede in un istante: un evento che inizia e finisce oggi, e si esaurisce in 24 ore – aggiunge Simone – In questo caso, invece, abbiamo avuto la possibilità di raccontare e scrivere un prodotto su più puntate, che si potesse seguire dall’inizio alla fine, e per questo motivo abbiamo volontariamente tentato di allestire una struttura narrativa che alla fine di ogni puntata avesse un colpo di scena, un gancio che facesse venire voglia di ascoltare quella dopo».

Nei cinque episodi del podcast la vicenda di Luca Delfino viene ricostruita pezzo per pezzo, in una narrazione il cui scheletro è la linea temporale ben definita che porta dal 2006 a oggi, attorno a cui gravitano le testimonianze dirette delle voci che – oggi o allora – si sono espresse per districare il nodo aggrovigliato che abita nel cuore oscuro di questa storia: gli avvocati, i parenti delle vittime, gli amici. Si crea così l’effetto molto suggestivo di un mosaico di voci, che come ritagli di verità parziali si accostano, collidono, si incastrano e poco a poco arrivano a mettere a fuoco una verità più ampia, plurivoca e dunque più affidabile. Questo modo di procedere, che ricrea la suspense “a ritroso” a partire dai brandelli di una storia già conosciuta, è davvero efficace perché tiene assieme da un lato la necessità morale di ricostruire tutta la verità da ogni punto di vista, e dall’altro la necessità estetica di creare una certa suspense.

Al nodo cruciale di questa storia si arriva circa a metà del podcast, quando si ascoltano finalmente le parole di Delfino. In un’intercettazione audio cruda e raggelante, si sente l’omicida litigare con la futura vittima, e chi ascolta ha la netta impressione di avere raggiunto qui il punto di massimo avvicinamento alla verità di tutto il racconto. Durante la discesa nella psiche nerissima dell’assassino, questa testimonianza diretta colpisce con precisione: è uno di quei momenti in cui – come negli incipit e nei finali di episodio – emerge la filigrana del medium audio, si fa sentire lo spessore, la consistenza quasi materica del documento che stiamo ascoltando. In questo senso, la verità passa solo attraverso questa filigrana, cioè la texture delle cassette registrate, che diventa così garanzia di autenticità: come in Loch Henry, secondo episodio della sesta stagione di Black Mirror (e altro esempio di ragionamento sul genere del true crime), solo ciò che è filmato è la verità.

Da questo nodo non districabile, negli ultimi episodi del podcast prende avvio una discussione, complessa ma molto affascinante, sulla vita dopo: le conseguenze dei delitti e del processo sulle vittime e su Delfino. I temi centrali sono lo scontro tra magistratura e polizia (che porterà a una sentenza largamente percepita come ingiusta), la legge Basaglia sulla salute mentale e la responsabilità curativa del carcere. Su questo, il podcast assume una posizione netta, si fa militante ma non banalizza: la storia di Delfino è un doppio fallimento, non solo perché lo Stato non ha saputo scoprire il colpevole della morte di Luciana Biggi né impedire l’omicidio di Maria Antonietta Multari, ma anche perché ha rinunciato in partenza a qualsiasi tentativo di riabilitazione e cura nei confronti dell’omicida. Il nodo originario di tutta la vicenda resta insoluto. «Il giornalismo per me è anche militanza e mi fa piacere se si nota – commenta Pietro Adami – Al di là della storia in sé, era per noi interessante indagare tutto ciò che le ruotava attorno: la salute mentale, il confine tra necessità di sicurezza collettiva e diritto alla cura. Ci sembrava paradigmatico della nostra società il fatto che in tutti i suoi sedici anni di carcere, Delfino non sia mai stato curato. Il racconto era avvincente e drammatico, ma fin dall’inizio ci interessava soprattutto arrivare al contesto: non c’era solo la volontà di raccontare una storia crime che coinvolgesse, ma un interesse più profondo su tutto ciò che essa implica».

«Prendere una posizione è difficile e interessante in una storia come questa – aggiunge Simone –, a tratti quasi impossibile: da una parte, le famiglie delle vittime si sentono tradite da uno Stato che non ha protetto le loro figlie, dall’altra, ognuno (avvocati, giudici, giuria) ha una ragione buona e legittima per giustificare le scelte prese durante il processo e il modo in cui ha agito. Non c’è alcuna posizione facile da prendere senza diventare populisti o superficiali. Del resto, però, è possibile trovare in questa storia tracce di altri eventi: l’influenza del G8 che in quegli anni ha inquinato una vicenda che non c’entrava nulla e la responsabilità delle Rems, in cui anche una persona come Delfino, con tutto quello che ha fatto, è un cittadino che ha diritti e merita di essere curato. Su questo c’è un pensiero, una linea nostra ben precisa e abbiamo deciso di seguirla».

Nel complesso, dunque, La vita dopo è un prodotto decisamente interessante su più fronti: con una narrazione agile e limpida e un ritmo serrato, va oltre la ricostruzione di una vicenda di cronaca nera per ricercarne le motivazioni e il terreno in cui si è sviluppata, offrendo una prospettiva più larga. È un esempio di serialità che rientra nel genere true crime, oggi sempre più frequentato: «Anni fa la cronaca nera era relegata ai salotti televisivi e ai talk show di serie B – spiega Pietro – mentre oggi c’è stata una rinobilitazione del genere, rivisto soprattutto rispetto a quell’attenzione voyeuristica e morbosa che prevaleva in passato. Al contrario, la possibilità che abbiamo avuto di raccontare un fatto di cronaca nera attraverso una serialità che ti permette di aprire anche altri fronti di riflessione è molto affascinante: questo genere sta vivendo un periodo di grande spolvero e di crescita. Dunque l’interesse per il true crime c’è, ed è anche in corso un suo cambiamento in positivo: se non ci si perde nel gossip, se queste storie diventano un modo anche per discutere di altro, diventano davvero utili». «L’idea di raccontare storie di cronaca dopo anni, con un po’ più di distacco e agganciandosi a temi civili e sociali è stata produttiva – commenta Simone – Anche come spettatore, è più facile appassionarsi in un pomeriggio a una vicenda e ascoltarsela tutta in una settimana, piuttosto che seguire giorno per giorno una miriade di servizi che danno solo titoli, a volte anche discordanti o parziali. Questa, però, è una questione che riguarda non solo il genere ma il modo di raccontare le notizie in generale, e su questo tutto il giornalismo sta cercando di migliorare».
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