
Scarpette rosse – La grande fiaba nera di Powell e Pressburger
Rivedere il cinema di Powell e Pressburger a distanza di tempo ha un effetto quasi magico. Film dei quali si conserva un ricordo certamente preciso ritornano davanti agli occhi dello spettatore con una forza inedita sia per quanto riguarda l’accuratezza della messa in scena che per quanto concerne l’equilibrio instabile fra i personaggi, che di queste pellicole costituisce senza dubbio uno dei punti più interessanti. Tornare a queste opere è un’esperienza a tratti sorprendente, perché consente di scorgerne gli aspetti già così precocemente moderni, in un’epoca in cui, più lontani dall’influenza del modello hollywoodiano, i registi potevano permettersi di sperimentare con le forme codificate, confezionando film certamente spettacolari nel senso classico eppure già proiettati verso nuove possibilità espressive che spesso il medium cominciava appena ad intravedere.

Lo si è detto a proposito di Black Narcissus, ma lo stesso vale certamente (e forse in misura anche maggiore) per Scarpette rosse, uscito soltanto un anno dopo (siamo nel 1948, in anticipo – giusto per offrire un riscontro – di più di dieci anni sulla disarmante modernità di Psycho). Se in Narciso nero era soprattutto la qualità atmosferica delle riprese a tradurre visivamente le contorsioni sentimentali dei personaggi (siamo d’altronde nell’ambito del melodramma), Scarpette rosse ha l’aspetto di una grande fiaba nera, fortemente radicata nel presente e capace di mostrare le molteplici contraddizioni del suo tempo. Come ne Il mago di Oz le scarpe (pure rosse) di Dorothy diventano il punto d’accesso ad un mondo nuovo (e sono al contempo un oggetto segnato dalla morte), allo stesso modo nel film di Powell e Pressburger questo oggetto-feticcio diventa la chiave di volta di un’architettura della rovina, un viaggio che non è più di salvezza (come di fatto era in Fleming) ma di irreversibile caduta.

Il visionario ma folle impresario teatrale Lermontov è il motore immobile della vicenda, il punto verso cui tutti i personaggi sono attratti irrimediabilmente e con il quale finiscono per scontrarsi (come avviene per Julian) o al quale non possono fare altro che ritornare (è, ovviamente, il caso della protagonista). Il suo è, insieme a quello di Victoria, il personaggio più complesso e interessante del film, quello che – nel suo essere complesso e mai banale – sembra anticipare le grandi domande esistenziali ed etiche del cinema moderno. Ancor più freddo del Kane di Welles (cui il suo autore riconosceva almeno le attenuanti di una vita non semplice) e dotato di un potere fascinatorio degno del dottor Mabuse di Lang, Lermontov è un personaggio radicale e, proprio per questo, assolutamente tragico. È questo un destino che lo accomuna alla ballerina Vicky, che plasmerà nell’immagine della perfetta danzatrice al punto tale da maledirla con un’ossessione per la quale la giovane finirà con consumare non soltanto i suoi affetti ma anche la sua stessa vita.

In questo senso Scarpette rosse è un’opera unica perché sospesa fra il tempo della ricapitolazione (vi ritroviamo suggestioni di molto del cinema precedente) e quello del rilancio (la modernità cui si è già fatto cenno). La sequenza finale del balletto in absentia è da questo punto di vista assolutamente emblematica: dopo che Vicky si getta nel vuoto (suggestionata dalla volontà delle scarpette o vittima di una contraddizione dalla quale non è in grado di uscire?), Lermontov avvisa il pubblico presente in teatro che lo spettacolo si svolgerà comunque, ma che la prima ballerina non sarà sostituita. Rivediamo così la meravigliosa coreografia lungamente apprezzata verso la metà del film, mentre un riflettore disegna sul palco la traiettoria che quel corpo mancante avrebbe dovuto tracciare.
Powell e Pressburger hanno così dato corpo ad un film che, pur muovendosi all’interno di una forma consolidata (quella del melodramma anni Quaranta) riesce nel non facile compito di distinguersi per un’impronta autoriale forte, una declinazione titanica che contraddistingue le opere dei due registi connettendole ad una tradizione narrativa al contempo antica e modernissima. L’eco di un tempo lontano emerge fra le pieghe di un testo ribollente e volutamente non pacificato, dove lo sguardo diventa (soprattutto, ma non esclusivamente, nel finale) il mezzo per visualizzare (senza risolvere) le complessità sentimentali di anime drammaticamente tormentate.
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