
Colette et Justin – Memorie dal Congo | Biografilm 2023
C’è una frustrazione identitaria alla base del documentario di Alain Kassanda, che per ricostruire la storia della sua nazione, la Repubblica Democratica del Congo, deve mettere in controluce certe fotografie di famiglia, forate e corrose dal tempo: da quegli spazi imprecisi, sagomati da ricordi e suggestioni, emerge il tema dell’imperialismo belga, del genocidio ai danni dei congolesi, della deumanizzazione, dello sfruttamento improprio dello risorse territoriali; sono queste le premesse per la svolta del 1960, dalle quali si approderà poi alla decolonizzazione, all’indipendenza ed infine ad una faticosa quanto agognata libertà.

Per potersi cucire addosso questa rinascita, il regista deve avvalersi del filo rosso intrecciato dalle voci dei suoi nonni, Colette e Justin; campo e controcampo l’una dell’altro, i due parlano guardandosi negli occhi e, così facendo, eclissano l’ingombro del mezzo di ripresa. Questa reciprocità di sguardi, a sua volta accentuata da asfissianti riprese a mezzo busto che oscillano da lei a lui e viceversa, intessono un ambiente riservato, intimo, a disposizione dello spettatore ma solo parzialmente accessibile. Operazione opposta a quella del primo documentario antropologico, Nanook of the North (1922) di Flaherty, in cui l’eschimese Nanook guarda dritto in camera, confrontandosi con l’ipotetico spettatore occidentale e in un certo senso anche appagando il suo voyerismo per l’esotico.
Più che tra autore e pubblico, la simmetria si concentra sulla complementarità tra doveri e conquiste di una donna e di un uomo nell’Africa del ventesimo secolo, grazie al disinvolto resoconto sociopolitico offerto da Colette e Justin. Così, mentre lei racconta di un’educazione scolastica improntata sullo svolgimento delle faccende domestiche, lui ripercorre i dodici anni trascorsi in seminario, con la speranza di diventare un giorno sacerdote cristiano. Anche quando il marito, ex senatore, si addentra negli interessanti meccanismi politici del primo confusionario governo congolese – momento più saliente e paradossale del lungometraggio – Colette alza le spalle e controbatte ammettendo che la sua priorità, mentre Justin si affannava in parlamento, era quella di andare al pozzo, distante chilometri e chilometri, a prendere dell’acqua per la famiglia.
In questa altalena di prospettive, il ruolo di Kassanda è quello di spingere, di incalzare con domande e osservazioni, senza lasciare che la conversazione si areni ad una serie di omissioni e non detti. Le rigidità storiche e manualistiche vengono così integrate con aneddoti e confessioni inedite, come fiumi di appunti personali ed emotivi che increspano una visione degli eventi lineare, anche a costo di fronteggiare contraddizioni potenzialmente disfattiste. Primo fra tutti il ricordo della crisi congolese dal 1960 al 1965 e il conseguente scoppio di una guerra civile tra gruppi etnici diversi, combattuta a colpi di incendi a case e villaggi, inevitabilmente ricordata con estrema amarezza dai nonni. Grazie a questa contrita sincerità anche i filmati d’archivio che punteggiano il film, da inavvicinabili e silenziose reliquie disturbanti, diventano rimandi tangibili dei disastrosi effetti del colonialismo.

Colette et Justin si presenta al Biografilm Festival come un’eredità che ha urgenza di essere presa a carico. Lontano dal porsi come un mero esercizio di introspezione familiare, il film grida piuttosto ad una forma più matura di consapevolezza storica collettiva.
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