
Les plages d’Agnès – Aprirsi e ricordare
«Si on ouvrait des gens, on trouverait des paysages. Si on m’ouvrait moi, on trouverait des plages»
«Se aprissimo le persone, troveremmo dei paesaggi. Se apriste me, trovereste delle spiagge»
Con questa frase Agnès Varda dà inizio a Les plages d’Agnès, il suo primo film interamente autobiografico. Alla soglia degli ottant’anni, la regista belga ripercorreva le spiagge che avevano rappresentato i luoghi chiave della sua vita, trasformandole nei capitoli naturali del suo documentario. Quindici anni dopo e a quattro anni dalla sua scomparsa, ci ritroviamo nuovamente a celebrare il suo compleanno ricordandola attraverso il documentario in cui si aprì al pubblico lasciando scorgere stralci dei suoi paesaggi interiori.
È infatti sulla sabbia del Mare del Nord, a La Panne, che la regista ambienta l’inizio del film nel quale ci racconta la sua infanzia a Bruxelles. Lasciato il Belgio a causa della guerra, Varda approda su un’altra spiaggia, quella de La pointe courte, a Sète. Di qui, sale a bordo di una barca con vela latina sulla quale raggiunge Parigi, la città dei suoi studi e dei suoi primi lavori come fotografa. Nella capitale francese conosce il suo futuro marito Jacques Demy con cui, dopo il successo di Les parapluies de Cherbourg, parte per Los Angeles. Dalle spiagge di Santa Monica e di Venice, la regista racconta i suoi due soggiorni hollywoodiani per poi tornare in patria dove continua a lavorare tra l’isola di Noirmoutier e rue Daguerre a Parigi, ricoperta di sabbia in occasione del film.

Le spiagge strutturano così il racconto autobiografico di Varda diventando i punti di riferimento della sua vita e allo stesso tempo del film che procede in modo tutt’altro che lineare e omogeneo. Il documentario è infatti un puzzle di vecchie interviste, fotografie, dipinti, estratti di film, installazioni e altri materiali eterogenei attraverso i quali l’onnipresente voce over o in della regista guida lo spettatore permettendogli di entrare nei paesaggi mentali della sua memoria. Nonostante la disomogeneità di questi luoghi-ricordo, l’immagine che rimane impressa nella memoria del pubblico non perde nitidezza. Tramite un immenso e minuzioso lavoro di montaggio, Varda raggiunge infatti un equilibrio sottile bilanciando la tendenza all’ecfrasi con la sua capacità affabulatoria.
Una grande novità del film risiede nella volontà della regista di diventare il personaggio principale del racconto. Dopo gli esperimenti di Jane B. par Agnès V. e Les glaneurs et la glaneuse, Varda diventa l’attrice principale scegliendo di stare definitivamente davanti alla cinepresa. Interpretando «il ruolo di una vecchietta paffutella e chiaccherona che racconta la sua vita», la cineasta si apre al pubblico rivelando particolari molto privati come la vera causa della morte di Demy e la sua storia con Antoine Bouseiller, che la abbandonò dopo la nascita di Rosalie.

Ma Les plages d’Agnès è soprattutto il racconto della realizzazione dei film, delle fotografie e delle opere d’arte di Varda che, attraverso questo film, affida alla critica e al pubblico una preziosa antologia della sua produzione. Per la regista, l’autobiografia si trasforma così in un’occasione per contestualizzare i suoi film associandoli a un momento della sua vita nonché in uno spazio in cui dichiarare i propri modelli (artistici e non) e in cui mostrare parte del processo produttivo delle sue opere. Nascono così numerosi aneddoti come il racconto del cavo elettrico lungo novanta metri che, fatto passare attraverso la buca delle lettere di casa Varda, permise la realizzazione di Daguérreotypes, e altrettante rivelazioni inedite come la centralità di alcuni dipinti di Baldung Grien durante la cinécriture di Cléo dalle 5 alle 7.
Tuttavia, lo scopo di Les plages d’Agnès non è solamente commentare e ricordare i film della regista: il documentario diventa soprattutto un’occasione per riprendere i temi, le musiche e le strategie narrative delle opere passate creando nuove associazioni e rielaborandone il significato. Ne sono un esempio il racconto del suo viaggio in Cina, che viene realizzato attraverso una successione di fotografie accompagnate dal commento dell’autrice, rielaborando una strategia narrativa già utilizzata in Salut les Cubains; o i tableaux vivants che riproducono Gli amanti di Magritte diventando metafore per descrivere il rapporto tra Varda e Demy, come in Jane B. par Agnès V..
Anche la scelta di ricreare alcuni momenti d’infanzia di Agnès rappresenta una citazione di Jacquot de Nantes, così come l’indagine delle fotografie di Varda esposte al festival d’Avignon ricorda l’impianto narrativo che strutturava Ulysse. Un altro esempio è la rielaborazione delle interviste e dei ritratti di Les glaneurs et la glaneuse, questa volta utilizzati per mostrare gli amici e i collaboratori della regista.

Raccontando il processo di cinescrittura dei film di Varda, Les plages d’Agnès ne ripropone e sviluppa i temi e le strategie narrative. Il risultato è un documentario in perfetto equilibrio tra rêverie e realtà, tra struttura e divagazione, tra intimità e distanza. Attraverso questo racconto autobiografico, Varda ci dimostra che parlare del proprio passato significa ricrearlo nel presente conferendogli nuove forme e nuovi significati. Non a caso, Varda conclude il film affermando che ricordare è far rivivere ciò che si è vissuto nel momento presente; citando le sue parole: «Ricordo mentre vivo».
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