
Liberi dentro – Arrevuoto Teatro di Napoli
Liberi dentro è una rubrica dedicata al teatro nelle strutture detentive: una serie di interviste con professionisti del settore che da anni promuovono progetti finalizzati al reinserimento nella società attraverso la conoscenza del proprio mondo interiore e di quello altrui. Penetrare nelle pieghe dei laboratori di teatro in carcere vuol dire, infatti, scoprire aspetti controversi ed esiti – talvolta imprevedibili – di un lavoro che presuppone l’incontro e la contaminazione tra culture diverse.
La quarta chiacchierata ha coinvolto Emma Ferulano, educatrice teatrale tra le fondatrici dell’associazione culturale Arrevuoto Teatro, che da anni opera tra le periferie e il centro di Napoli. Ecco che cosa ci ha raccontato.
Come nasce e si sviluppa il vostro progetto?
Arrevuoto Teatro nasce nel 2004, in concomitanza con la prima faida di Scampia, e dal 2012 è a tutti gli effetti un’associazione che opera nei rioni di edilizia popolare e nei campi rom non autorizzati. Abbiamo avviato il progetto in un momento storico in cui Scampia si trovava sotto la luce dei riflettori, e veniva spesso raccontata attraverso un sguardo stereotipato, stigmatizzante. All’inizio operavamo come cittadinanza attiva, e senza alcun tipo di finanziamento, con progetti legati al Carnevale di Scampia che si occupavano di riqualificare certe aree di marginalità sociale attraverso la contaminazione tra le arti.
Qual era il vostro intento quando avete fondato Arrevuoto Teatro?
Volevamo dare una forte risposta culturale alla faida. Fin da subito abbiamo iniziato a organizzare laboratori teatrali in scuole in cui il grado di disagio degli studenti era molto alto; ci siamo trovati a interagire con ragazze e ragazzi inquieti, che provenivano da zone periferiche e vivevano in condizioni socio-economiche svantaggiate. In alcuni casi abbiamo creato dei progetti in cui questi studenti hanno potuto interagire con adolescenti dei licei della Napoli bene, il più delle volte figli di professionisti. Questa commistione ha avuto molto presto un forte impatto culturale sul territorio; un principio di mobilità sociale che altrove non esisteva, in nessun progetto artistico…

Che tipo di spettacoli realizzate e quali difficoltà incontrate più spesso?
Il primo anno abbiamo messo in scena La Pace di Aristofane, e tra i protagonisti c’era una ragazza agli arresti domiciliari. L’obiettivo di un progetto di questo genere era, ed è, dare una seconda possibilità a giovani che altrimenti rimarrebbero all’interno dei loro ghetti. Alcuni sono più refrattari di fronte al lavoro, e capita che bisogna chiamarli ogni mattina, convincerli ad alzarsi dal letto e venire a fare teatro. Ma alla fine riusciamo a mettere in scena uno spettacolo che viene inserito nella programmazione del Teatro Stabile, e tra gli spettatori abbiamo le autorità, le famiglie dei ragazzi benestanti e quelle dei rom. Il risultato è la contaminazione culturale che è poi uno degli obiettivi dei nostri progetti.
Come è continuato il vostro lavoro nel corso del tempo?
Con gli anni abbiamo cercato di coinvolgere altri quartieri oltre Scampia; prima Ponticelli, poi Rione Traiano quando venne ammazzato Davide Bifolco (diciassettenne ucciso “per errore” da un carabiniere ndr): volevamo attivare quanti più quartieri possibile per dar voce a battaglie sul territorio. Col tempo anche la nostra rete di collaborazioni si è allargata: abbiamo collaborato con professionisti come Marco Martinelli, regista e fondatore del Teatro delle Albe di Ravenna, con il critico teatrale e saggista Goffredo Fofi, con lo sceneggiatore Maurizio Braucci, ma anche con Roberto Saviano prima del successo editoriale di Gomorra. Capita spesso che ragazzi che, in passato, erano stati destinatari dei laboratori di Arrevuoto Teatro, abbiano poi avuto delle esperienze come attori professionisti. Alcuni di loro hanno recitato, e recitano tutt’ora, nella compagnia Punta Corsara; altri sono entrati nel cast di Gomorra e de L’amica geniale; ma non sempre hanno concrete possibilità di intraprendere questa carriera nel lungo termine, perché purtroppo mancano di un titolo professionale riconosciuto.

Entriamo nel merito delle metodologie del vostro lavoro. Quali sono le strategie più efficaci per interagire con ragazzi che provengono da contesti di marginalità?
L’educatore accompagna sempre il regista, perché tutti i ragazzi devono essere inclusi: quelli che con maggiori difficoltà comunicative, quelli che non si fanno inquadrare in una disciplina… Sembra scontato, ma bisogna fare attenzione a non escludere nessuno dal lavoro, ma rispettare, i tempi, i modi e i linguaggi di ciascuno, provando a far emergere i talenti individuali. L’educatore deve stare al loro fianco, riuscire a trascinarli, a coinvolgerli a partire dalle loro storie. L’autoritarismo è sconsigliato, serve molto ascolto. Non bisogna mai concentrarsi su ciò che questi ragazzi non sanno fare: alcuni di loro non sanno neppure leggere. Allora cerchiamo di partire da testi che possano coinvolgerli emotivamente, lavoriamo sulla relazione e sulla consapevolezza dei sentimenti. Talvolta scegliamo di riscrivere i testi per intero, e in questo lavoro sono i ragazzi stessi a diventare protagonisti: si occupano della riscrittura, guidati da educatori e registi naturalmente.
Come si può trascinare nel lavoro i ragazzi che si mostrano più refrattari?
Arrevuoto Teatro non vuole dare l’idea dell’obbligatorietà, per questo non è mai inserita in orario curriculare. Chi vuole, partecipa. Molti di questi ragazzi non hanno ancora chiaro cosa sia il teatro, nemmeno dopo anni di laboratori; però con noi si trovano in un flusso di cura e di partecipazione, diverso da ciò con cui hanno a che fare nel quotidiano, ed è per questo che i nostri laboratori li attraggono. Durante il lavoro, proviamo costantemente ad aiutarli a trovare la motivazione, che può essere data dall’urgenza di comunicare, o dal bisogno di avere un’educatrice che li segua, li curi e li ascolti. Cerchiamo sempre di offrire un percorso di qualità, con l’obiettivo di realizzare uno spettacolo in un teatro. A volte, per alcuni ragazzi, lo stimolo può essere quello di raggiungere una certa “notorietà”, ma il risvolto della medaglia è che sviluppano una sorta di ansia da prestazione.

A proposito della figura del regista, quali caratteristiche umane avvicinano e quali invece risultano respingenti?
Ogni regista deve mantenere una sorta di disciplina nel lavoro, ma anche saper riconoscere ciascun giovane nella sua individualità. E deve saper creare un clima di lavoro sereno, senza ansia da prestazione. Se il regista è ansioso, i giovani vanno in panico. Un bravo regista deve anche dare, secondo me, il giusto spazio ai rituali di inizio e fine lavoro. Si arriva, ci si saluta, ci si mette tutti in cerchio, si fanno dei giochi per prepararsi al lavoro sul testo. Si chiude salutando, “perdendo tempo” proprio nella ritualità del saluto.
In che modo entrano in gioco le dinamiche di genere nel vostro lavoro?
Questi ragazzi sono abituati ad avere, in famiglia, figure femminili di riferimento molto presenti, forti. Questo accade perché a volte i padri non ci sono, o sono in carcere. Nel nostro gruppo, le educatrici sono prevalentemente donne. L’elemento seduttivo può entrare in gioco perché nel loro ambiente la cultura patriarcale è portata allo stremo, ma le donne sono i pilastri delle famiglie in linea di massima. In ogni caso non si crea un clima di derisione, di paura o di discriminazione per l’altro da me, ma di curiosità.
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