
Liberi dentro – Il Teatro dei Venti di Modena
Liberi dentro è una rubrica dedicata al teatro nelle strutture detentive: una serie di interviste con professionisti del settore che da anni promuovono progetti finalizzati al reinserimento nella società attraverso la conoscenza del proprio mondo interiore e di quello altrui. Penetrare nelle pieghe dei laboratori di teatro in carcere vuol dire, infatti, scoprire aspetti controversi ed esiti – talvolta imprevedibili – di un lavoro che presuppone l’incontro e la contaminazione tra culture diverse.
La terza intervista ha coinvolto il direttore artistico del Teatro dei Venti Stefano Tè, attore e regista che da anni, con la sua compagnia, è attivo sul territorio con progetti di teatro in carcere. Ecco cosa ci ha raccontato…
Foto di Chiara Ferrin
Ci dica qualcosa della vostra realtà teatrale…
Stefano Tè: Il Teatro dei Venti nasce, nel 2005, dal mio desiderio di fondare una compagnia teatrale con un’idea di comunità, con una condivisione di intenti e una funzione politica, di presenza e impegno sociale sul territorio. Abbiamo voluto frequentare il margine per capire il centro, e per capire che il centro è ben altro da ciò che possiamo immaginare. Abbiamo iniziato a lavorare in carcere per cambiare prospettiva su questi contesti: dapprima nel carcere di Castelfranco Emilia, dove nel 2006 abbiamo fatto il primo laboratorio, poi nel carcere di Modena e in quello minorile di Napoli. Da quel momento non abbiamo mai smesso, anzi, abbiamo fondato il coordinamento regionale teatro-carcere. Oggi organizziamo laboratori anche per persone con disagi psichici, per migranti, bambini… Ma non ci piace l’etichetta di teatro-sociale, perché il teatro è sempre sociale.
Come si svolgono le vostre attività in carcere?
Di solito dico che non organizziamo attività laboratori, ma di vera e propria produzione artistica: lavoriamo per produrre uno spettacolo. Non facciamo lavoro terapeutico, nel nostro staff non ci sono educatori. Cerchiamo di trasmettere ai detenuti delle competenze, oltre che pratiche anche umane. E i detenuti vengono retribuiti quando vanno in scena. Non possiamo trasformare il carcere in un teatro, perché la realtà del carcere è più forte e dunque prevale. Nel lavoro con i detenuti devo mostrarmi sì rispettoso, ma anche scatenare tensioni, per dimostrare che il teatro trasforma le relazioni nel carcere, stressa le forze in campo. Il teatro è ben fatto quando si assume anche questa sfida.
Alla fine di un percorso di teatro in carcere, il momento della performance è fondamentale per i detenuti o è più “formativo” il processo laboratoriale?
Il processo è in effetti la fase più interessante, perché rappresenta il momento di ricerca creativa. L’incontro col pubblico è la parte più noiosa perché si entra nella dimensione del dimostrare dunque del fingere, del simulare e dell’occultare le fragilità individuali. Ma fare lo spettacolo, e aprire così il carcere alla città, è un’azione politica. Per me il teatro non è solo un fatto che accade tra registi e detenuti, dunque è importante il riverbero che lo spettacolo ha sul territorio.

Come approcciare i detenuti con più paura del giudizio, resistenze e diffidenze?
Le difficoltà che incontriamo sul piano emotivo e relazionale possono essere molte, io personalmente riesco a interagire con tutti i gruppi perché cerco, cerchiamo, di mettere tutti a loro agio. Per esempio so pochissimo dei detenuti con cui lavoro, mi disinteresso al reato perché non ne posso e non ne voglio essere influenzato durante il lavoro. Abbiamo messo in scena spettacoli con i sex offenders e con i detenuti all’ergastolo bianco (che hanno scontato la pena, ma rimangono in carcere perché ritenuti socialmente pericolosi ndr), che hanno già reiterato il reato. Spesso in questi ultimi gruppi troviamo gli individui più soli, quelli che rivelano i disagi più forti.
Quali sono le problematiche tangibili e i maggiori disagi che si possono incontrare?
Per le prove e per gli spettacoli portiamo i detenuti fuori dal carcere. È capitato che uno di loro abbia tentato di evadere, che altri abbiano bevuto troppo e non siano andati in scena perché ubriachi. Sono episodi sporadici e che possono capitare a chiunque, anche fuori dal carcere: può capitare che un attore si sbronzi prima dello spettacolo. Ma in un contesto come il carcere, fatti del genere stanno sotto la lente d’ingrandimento.
Cosa spinge i detenuti a iniziare un percorso teatrale?
Capita che, all’inizio, lo stimolo sia opportunistico. Il detenuto che fa teatro può ottenere, per esempio, dei permessi speciali per andare a trovare i familiari. Alla fine però buona parte di loro si lascia coinvolgere e incantare dal teatro, molti continuano anche quando hanno finito di scontare la pena. Uno di loro mi ha detto, una volta “Stefano ho capito una cosa: che per rovinarsi la vita, servono cinque minuti. Per fare cinque minuti di teatro, serve una vita.” Un altro mi veniva a svegliare la mattina presto per parlarmi di una sua idea per una scena. Questi ragazzi scoprono nel teatro la possibilità di andare a fondo nelle cose, di non restare in superficie: imparano l’approccio al lavoro e alla vita, e poi potranno portarlo in qualunque professione, relazione, esperienza, al di là del teatro.
Come si entra in empatia con i ragazzi con maggiore rigidità?
Il nostro è un lavoro prevalentemente atletico, fisico, performativo. Un lavoro che ha poco di intellettuale, di concettuale. Lavoriamo su dinamiche di gruppo, associandole alle attività sportive di squadra. E, cosa importante, non ci poniamo mai dall’alto verso il basso. Con loro non serve salire in cattedra: creiamo una familiarità a partire dai punti di contatto tra noi e loro, evitando di mettere troppa distanza.

Parliamo di dinamiche di genere: entrano in gioco durante il lavoro che fate in carcere?
È naturale che accada… Durante le prove di Antigone, uno spettacolo messo in scena con i sex offenders, le loro braccia erano le corde che tenevano la protagonista. Di conseguenza, tutti dovevano toccare il corpo dell’attrice. I direttori non erano d’accordo con la mia scelta registica, ma ho spiegato loro che i detenuti, in scena, sono semplicemente degli attori. Il reato scompare, almeno per me: non mi faccio influenzare dai pregiudizi, do loro massima fiducia. Alcuni venivano a dirmi che si sentivano a disagio con quel gesto, ma io li spronavo. Li trattavo da professionisti, indipendentemente dal motivo per cui erano in carcere. Questo distacco del giudizio fa bene a tutto il gruppo, alle relazioni che si instaurano.
Sempre a proposito delle questioni di genere, capita che il laboratorio si popoli quando c’è una bella ragazza che tiene il corso. Ma presto si accorgono tutti che il lavoro è serio, duro, che ci vuole disciplina. Allora chi è venuto solo per la bella ragazza va via, chi si appassiona resta. Ma queste dinamiche accadono anche fuori dal carcere, l’aspetto seduttivo entra in gioco in qualunque microcosmo, ma poi deve essere superato.
Diceva prima che con le detenute è necessario un approccio diverso…
Coinvolgere le donne nel lavoro è più complicato. Le detenute hanno un approccio pretenzioso, vogliono sapere perché sono lì a fare teatro, in che modo quel percorso possa aiutarle. Hanno un senso di responsabilità più profondo rispetto al mondo esterno, ed è più facile che nascano tensioni e conflitti nel gruppo. Con gli uomini si crea un’atmosfera più cameratesca, mettiamo un po’ di musica e riescono ad astrarsi con più facilità dalla loro vita, dalla condizione che vivono fuori dal carcere. Le donne continuano ad avere un doppio filo col mondo esterno, dunque coinvolgerle pienamente nel lavoro è più faticoso…
Con gli uomini può essere difficile perché, a volte, si rifiutano di interpretare ruoli femminili. Ma se si rifiutano, non lavorano. Mi comporto con loro, ripeto, come farei con dei professionisti.

Vi capita di lavorare con detenuti e non detenuti insieme?
È capitato, per esempio, con detenuti insieme a bambini e ragazzini molto giovani, senza alcuna esperienza teatrale. Facevamo un periodo di prove con i due gruppi separati, e ciascun gruppo vedeva i video delle prove dell’altro gruppo. Si conoscevano così, solo attraverso i video. Il pomeriggio dello spettacolo si faceva un’unica prova insieme, e la sera si andava in scena. È un’esperienza che abbatte le rigidità e le convenzioni, perché i due gruppi hanno dovuto creare una coesione e una familiarità in pochissime ore, per riuscire ad andare in scena nel migliore nei modi. Il lavoro ha funzionato, il risultato è stato oltre le aspettative.
Perché fare teatro in carcere?
Non penso il teatro come mezzo educativo, ma come luogo in cui si produce consapevolezza, benessere ma anche malessere, che muove corde che possono farti stare male. Un detenuto in scena doveva uccidere Antigone, e lui nella vita organizzava tratte per la prostituzione. Si è tatuato sul corpo alcune frasi di Antigone. Può darsi che quel ragazzo una volta fuori farà ancora il delinquente, non posso escluderlo, ma sono certo che non reitererà il reato che lo ha portato in carcere la prima volta. Perché quelle parole, quel testo, lo hanno spinto a delle riflessioni nuove, a nuove consapevolezza. Il teatro è questo. Ma è anche disciplina, ci si abitua al lavoro e alle sue regole, che in teatro sono molto rigide.
Dal 2015 Birdmen Magazine raccoglie le voci di cento giovani da tutta Italia: una rivista indipendente no profit – testata giornalistica registrata – votata al cinema, alle serie e al teatro (e a tutte le declinazioni dell’audiovisivo). Oltre alle edizioni cartacee annuali, cura progetti e collaborazioni con festival e istituzioni. Birdmen Magazine ha una redazione diffusa: le sedi principali sono a Pavia e Bologna
Aiutaci a sostenere il progetto e ottieni i contenuti Birdmen Premium. Associati a Birdmen Magazine – APS, l‘associazione della rivista