
Liberi dentro – Il Teatro del Pratello di Bologna
Liberi dentro è una rubrica dedicata al teatro nelle strutture detentive: una serie di interviste con professionisti del settore che, da anni, promuovono progetti finalizzati al reinserimento nella società attraverso la conoscenza del proprio mondo interiore e di quello altrui. Penetrare nelle pieghe dei laboratori di teatro in carcere vuol dire, infatti, scoprire aspetti controversi ed esiti – talvolta imprevedibili – di un lavoro che presuppone l’incontro e la contaminazione tra culture diverse.
La seconda intervista ha coinvolto il direttore artistico del Teatro del Pratello Paolo Billi, regista e drammaturgo che all’interno della cooperativa cura i progetti di teatro in carcere, teatro civile e teatro di comunità. Ecco quanto ci ha raccontato.
Ci parli della vostra realtà teatrale…
Paolo Billi: Il Teatro del Pratello è una cooperativa che nasce nel dicembre 2007, con il proposito di consolidare e ampliare il lavoro avviato, nel 1998, dall’associazione Bloom Culture Teatri presso l’Istituto Penale Minorile di Bologna e in numerosi altri contesti di conflittualità e marginalità sociale. Si occupa di progetti teatrali rivolti agli adolescenti, con un’attenzione particolare ai minori in carico ai servizi della giustizia minorile e agli studenti delle scuole superiori; inoltre, ha realizzato e realizza diversi progetti di teatro in carcere per adulti.
Quali sono le differenze tangibili, sul piano umano e relazionale, tra detenuti e non detenuti che si approcciano a un percorso teatrale?
È difficile comprendere la differenza, soprattutto se non si ha mai avuto un contatto diretto con questi contesti. Ciò che si può immaginare del carcere non è la realtà. Esiste, per esempio, una differenza sostanziale tra detenuti dell’area penale interna e giovani dell’area esterna, che scontano la pena con misure alternative al carcere. Da alcuni anni abbiamo con noi ragazzi fino ai 25 anni compiuti, ma che hanno commesso il reato entro il diciottesimo anno di età. Ciò ha comportato un mutamento strutturale della realtà in cui si entra, perché quando hai davanti un giovane di 23, 24 o 25 anni hai davanti a te un uomo, non un ragazzino. E l’approccio e il metodo di lavoro inevitabilmente cambiano.
Qual è il metodo più efficace per formare un gruppo di lavoro coeso?
È fondamentale la mediazione di educatori, che individuano i giovani più motivati. Quelli che, per temperamento, sono più predisposti a un percorso del genere. Buona parte dei ragazzi sono magrebini, ma oggi si è alzata anche la percentuale di italiani. Un tempo la maggioranza di questi giovani provenivano da aree di profonda marginalità e disagio sociale; oggi i detenuti italiani sono di buona famiglia, e questo complica tutto. Mi trovo a formare gruppi fortemente eterogenei, di conseguenza è più difficile creare compattezza.

Qual è il suo approccio nel lavoro con i detenuti?
Non sono per nulla accomodante. Pretendo molto da tutti e, pur essendo in un luogo di coercizione, risulto meno permissivo e conciliante di altre figure permeate, per antonomasia, da un certo autoritarismo. II mio approccio è motivato dal fatto che, per me, il teatro non è tanto un’attività ludico-ricreativa; se vuoi farlo, devi rispettare gli orari e aderire a una disciplina. L’attività è totalizzante, in termini di impegno e di tempo. Per un regista o pedagogista è poi importante decifrare la dissimulazione da parte dei detenuti. Capita che i ragazzi bluffino, facciano credere agli adulti che stanno andando nella direzione richiesta durante il lavoro. Bisogna riconoscere il bluff.
Quali benefici apporta il teatro nella vita di questi ragazzi?
Fare teatro scombussola gli equilibri, è una sfida. Quando sento frasi come “non sono in grado, sono timido, non sono portato” io sottolineo che, di solito, chi non è portato, chi è timido, è anche chi riesce meglio. Quelli più spavaldi, più sfacciati, il più delle volte non fioriscono, falliscono dopo le prime settimane. Col teatro si impara a prendersi cura di sé, degli altri, delle cose. È un compito che nel teatro devi praticare. Cimentarsi con la precisione e la disciplina è un altro compito: le cose si fanno in un solo modo, anche se sei stanco, ti annoi, non ci riesci…
In cosa consiste, nello specifico, il lavoro che viene fatto in questi contesti?
Il teatro non è mai imitativo, mai mimetico: non mostro come fare una cosa, ma cerco di far capire loro perché fare una cosa. Il perché ciascuno può trovarlo dentro di sé, e io svolgo un lavoro maieutico. Bisogna cogliere quei movimenti subitanei, e dire tempestivamente “Ok, questo è giusto. Proviamo a rifarlo”. Lì sta la difficoltà. Ripetere una cosa non è solo un processo intellettivo, non consiste solo nello scomporre una cosa per poi rifarla. Bisogna ritrovare la forza e il calore per far sì che la seconda volta il gesto non risulti svuotato, meccanico, ma sempre intenso, vivo.

Qual è la funzione del teatro in carcere?
Io non parlo mai di teatro come strumento. Il teatro non è una terapia. Esiste anche quello, il teatro-terapia, ma per me il teatro è piuttosto un veicolo per fare delle cose. Il concetto di veicolo tralascia la dimensione strumentale. Agli educatori dico che il teatro non serve. Quando non serve, serve: e non è un gioco di parole. È l’esperienza della gratuità: faccio qualcosa per il piacere di farla. Ma è sempre un piacere sudato, e il rapporto con me è conflittuale. Un conflitto che non è mai sterile, ma propedeutico alla costruzione della fiducia e di un riconoscimento reciproco. In un luogo di autoritarismo, io sono determinato. Ma sono sempre loro, i giovani, che devono riconoscermi.
I ragazzi si approcciano in modo diverso con le operatrici donne e con gli operatori uomini?
La differenza è tangibile, per le donne è più difficile farsi riconoscere nel proprio ruolo. Alcuni detenuti non riconoscono l’autorevolezza femminile, spesso per consuetudini culturali. Inoltre, la sindrome della crocerossina o l’atteggiamento troppo bonario sono punti di partenza sbagliati per le educatrici, non bisogna mai costruire rapporti su queste basi. Le donne sono fondamentali, non per l’atteggiamento materno, ma perché sostengono i ragazzi in un modo diverso, li accompagnano nel percorso che li porta a superare certi conflitti e certi momenti di crisi. È necessario mettere questi giovani in condizioni di camminare sulle proprie gambe durante il percorso, e in questo le donne sono più capaci degli uomini. La presenza femminile in contesti maschili è fondamentale.
La donna e l’uomo hanno quindi ruoli complementari o sovrapponibili?
È accaduto che la donna sia riuscita a ottenere lo stesso rispetto con la fermezza, ma certo è più faticoso. Si incontrano più ostacoli, per delle incrostazioni comportamentali che bisogna smantellare. È necessario rimuovere determinati automatismi. E poi costruire.

Come si ottiene questo risultato?
Attraverso azioni quotidiane. Un esempio: c’è da pulire la sala. “Eh ma ci sono le donne che puliscono”, dice qualcuno. E sono io a dire “Pulisci tu”. Sono io a mediare all’inizio, con alcuni di loro. Altro aspetto importante: in carcere c’è un rituale. Chi entra saluta, dà la mano a tutte e a tutti. All’inizio alcuni provano una sorta di disagio nel dare la mano alle donne, ma viene superata presto. Una volta scattata quella positività, sono certo che quelle persone sapranno gestirsi nel modo corretto nel prosieguo.
In che modo il teatro insegna a questi ragazzi a prendersi cura di sé stessi?
È un percorso molto lungo e impegnativo. Per fare teatro bisogna essere disposti a mettersi in gioco in un certo modo. Se si arriva imbellettati e non si è disposti a sporcarsi, a sudare, ci si ritrova seduti in un angolo su una sedia senza far niente. Se si è disposti anche a buttarsi per terra, si può fare tutto e farlo bene. Bisogna avere la volontà di mettersi in gioco, non sono mai io a costringerli. Così come non impongo ai ragazzi di riporre al proprio posto gli oggetti di scena, di non lasciarli in giro. Capire che ognuno ha un angolo per mettere le proprie cose arriva come una conquista, non lo puoi imporre.
Negli istituti tengono molto alla forma, quando arrivano sono firmati dai piedi alla testa. C’è anche una tendenza diffusa a ostentare ciò che si possiede, per esempio vestiti o scarpe molto costose. La sfida è far capire a questi ragazzi che la cura di sé non risiede nel coprirsi di oggetti di valore, ma nella capacità di mettersi a nudo e di mettersi in gioco per arrivare a una conoscenza di sé più profonda.
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