
Liberi dentro – Puntozero Teatro nel carcere Beccaria
Liberi dentro è una rubrica dedicata al teatro nelle strutture detentive: una serie di interviste con professionisti del settore che da anni promuovono progetti finalizzati al reinserimento nella società attraverso la conoscenza del proprio mondo interiore e di quello altrui. Penetrare nelle pieghe dei laboratori di teatro in carcere vuol dire, infatti, scoprire aspetti controversi ed esiti – talvolta imprevedibili – di un lavoro che presuppone l’incontro e la contaminazione tra culture diverse.
La prima chiacchierata ha coinvolto Giuseppe Scutellà, regista e direttore artistico dell’associazione Puntozero Teatro di Milano, e la presidente dell’associazione Lisa Mazoni. Insieme questi due professionisti del teatro e della performance hanno dato vita al progetto “Errare humanum est”, all’interno del carcere minorile Beccaria di Milano. Ecco che cosa ci hanno raccontato.
Come nasce e si sviluppa il vostro progetto?
Giuseppe Scutellà: L’associazione Puntozero, di cui sono regista e direttore artistico, è all’interno del carcere Beccaria dal 1995. Abbiamo iniziato con un laboratorio teatrale e, già dal 1996, ci siamo concentrati sui mestieri del teatro, per arrivare di recente ad affermarci nei mestieri digitali e nelle nuove tecnologie. I protagonisti dei nostri spettacoli sono i giovani detenuti, dell’area penale interna ed esterna. Abbiamo due ragazzi assunti regolarmente, gli altri a contratto: una vera e propria compagnia. Con me c’è Lisa Mazoni, presidente dell’associazione Puntozero.
Perché il teatro può essere più efficace di un qualsiasi programma volto a rieducare l’individuo?
Giuseppe: Il teatro è un percorso per mettere questi ragazzi di fronte ai propri agiti, per modificarli insieme in maniera indiretta lavorando nella direzione dell’intersoggettività, della conoscenza di sé e dell’altro. Perché se non c’è l’altro io non esisto.

I giovani detenuti si approcciano con diffidenza a un percorso teatrale? Se sì, come si può lavorare sulle resistenze individuali?
Giuseppe: Il teatro è come l’amore: accade. Bisogna avere la voglia di mettersi in gioco. Certo, come registi e operatori bisogna essere accattivanti. Il teatro è un gioco che aiuta a conoscere e conoscersi: se stai bene e ti diverti, tornerai. La sfida è far conoscere la bellezza del teatro ai giovanissimi: la maggior parte di loro non lo conosce, c’è andato una volta a scuola al massimo. Non amo sentir parlare della funzione intellettuale del teatro, che serve invece a dar voce ai giovani che non hanno avuto la possibilità di studiare. Giovani che hanno bisogno di conoscere le parole per esprimere ciò che hanno dentro e fuori.
Da insegnante di Lettere, ho appurato che la frase più ricorrente tra ragazze e ragazzi oggi è “Prof, lo so ma non lo spiegare”. Questo dice tanto sulla loro incapacità di trovare le parole per esprimere ciò che hanno dentro…
Giuseppe: Il teatro e i classici servono a questo. Ci servono a nominare quello che proviamo. Dante ancora oggi nomina le nostre emozioni, ci fa capire chi siamo, ci accompagna nei momenti di difficoltà. La cultura permette di dire “Io non solo solo”; insegna ad agire, a vivere pienamente questa vita. Un giovane non ha la percezione della differenza tra fare l’amore e fare sesso. Questa percezione ce la dà cultura; l’istinto ci porta altrove.
Quali caratteristiche umane deve possedere un operatore che voglia trasferire questa grammatica dei sentimenti ai più giovani?
Giuseppe: Una volta si chiamava empatia. Io preferisco parlare di intersoggettività, cioè la capacità di relazionarsi con l’altro. In questo, il carcere dovrebbe diventare un modello per ciò che sta al di fuori. Prenda il fenomeno delle migrazioni e la capacità di vivere col diverso: in carcere si fa da decine di anni. Il carcere è una risorsa. È il laboratorio delle dinamiche che si verificheranno sulla strada nei prossimi anni. Inoltre come operatore, regista o pedagogista, non bisogna mai smettere di mettersi in discussione. Abbiamo bisogno di una classe dirigente, dunque anche di educatori, che continuino a imparare e a conoscere. La cultura non te la fai solo sui libri: è la capacità di entrare in ascolto.

Come cambia (se cambia) l’approccio di un’operatrice donna all’interno di un contesto di giovani detenuti uomini, e come cambia il feedback che arriva da questi ultimi?
Lisa Mazoni: Il carcere è un amplificatore della della determinazione del rapporto uomo-donna. Ci sono detenuti che, per ragioni culturali, si misurano con un femminile con certe caratteristiche. Per esempio, i ragazzi siriani sono abituati al femminile coperto, e per loro il matrimonio combinato dalle famiglie è la prassi. Le ragazze rom, in larga misura, indossano sempre e soltanto la gonna lunga. Il carcere dà loro la possibilità di indossare i pantaloni. Nella nostra utenza, ci sono culture in cui ancora la donna vive un periodo ancora buio, in cui deve sottostare al volere dell’uomo.
Le differenze culturali sono argomento di riflessione nei nostri percorsi, ma fanno nascere anche delle frizioni nel gruppo. Vedere una donna comica e non seduttiva per ragazzi di determinati strati sociali e culture è destabilizzante. È interessante come il lavoro in teatro smantelli questi preconcetti, perché donne e uomini lavorano alla pari. I ragazzi che danno per assodato che in quanto uomini sono superiori, devono rivedere le proprie convinzioni. Quando si va oltre la distinzione uomo-donna, e si comprende che il gruppo lavora per un obiettivo comune, è un successo.
Dunque, l’autorevolezza e la fermezza da parte di una donna vengono accettate?
Lisa: È un lavoro in divenire, si raggiungono piccoli risultati. Di sicuro questi ragazzi hanno un grande bisogno di affettività. Abbiamo un ragazzino siriano al quale i parenti negano di ascoltare la musica, perché per la loro cultura è peccato. Quando un ragazzo ha queste sollecitazioni, entrare in un luogo che dà la possibilità di dialogare, di abbracciarsi, di lavorare insieme è un traguardo. L’importante è riuscire a entrare in contatto con queste culture, ma mai far passare il messaggio che sia giusto dare per assodato che l’uomo debba avere dei privilegi rispetto alla donna. L’ironia è uno strumento fondamentale per contrastare certi preconcetti.

L’uso dell’ironia è ben accetto?
Lisa: La dimensione di accoglienza, in assenza di giudizio, permette all’ironia di essere ben accetta. Questi ragazzi si mostrano tutti d’un pezzo, ma sono in realtà molto fragili. Quando sono a contatto con gli universitari, i ragazzi con meno possibilità si camuffano da arroganti. Ma dentro avvertono un grande senso di inferiorità.
In che modo e in che misura utilizzate l’improvvisazione?
Giuseppe: La usiamo molto. Si improvvisano le scene, si scrivono drammaturgie, ma poi si ritorna ai classici. Partiamo sempre dal testo, tentiamo di capire insieme cosa stia dicendo. L’improvvisazione serve a svelare il meccanismo che ha mosso il drammaturgo nella scrittura. In una drammaturgia è la parola a emergere, ma c’è anche un sostrato col quale entrare in contatto. Durante lo spettacolo, però, non si utilizza l’improvvisazione: si recita Shakespeare, Sofocle, senza modifiche.
Lisa: Lo spettacolo di fine laboratorio è il momento in cui la storia viene raccontata dall’inizio alla fine, e il potenziale del teatro viene fuori pienamente.
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