
Non ho fotografato Falcone morto – Letizia Battaglia secondo Franco Maresco
Letizia Battaglia, nata nel 1935 e scomparsa lo scorso aprile, è stata una delle più significative e conosciute fotografe italiane del secondo Novecento. Di fama internazionale, ha vissuto gran parte della sua vita a Palermo, impegnandosi per un certo tempo anche nell’amministrazione politica locale. Furono opera sua alcuni degli scatti più celebri della lotta tra Stato e mafia e della lunga scia di attentati a stampo mafioso tra gli anni settanta e novanta, anche se, soprattutto dopo la morte di Giovanni Falcone, la Battaglia si allontanò piuttosto bruscamente dalla fotografia d’inchiesta.
Attiva fino alla morte, fondatrice nel 2017 di un Centro Internazionale di Fotografia all’interno dei Cantieri Culturali della Zisa, a Palermo, Letizia Battaglia era celebre anche per il suo celebre look e il caschetto di capelli variamente tinti, e più volte è apparsa al cinema in documentari o anche in ibridi di finzione dove interpretava sé stessa: significativo il suo cameo in Palermo Shooting, girato da Wim Wenders nel 2008; importanti anche i suoi interventi nei documentari In un altro paese di Marco Turco e il controverso La mafia non è più quella di una volta di Franco Maresco; svariati peraltro i documentari dedicati alla sua figura, tra cui La mia Battaglia, sempre di Maresco, realizzato in occasione di una mostra al Maxxi nel 2016, Shooting the Mafia di Kim Longinotto e Battaglia – Una donna contro la mafia di Daniela Zanzotto. Poche settimane dopo la sua morte era anche andata in scena sulla Rai una fiction in due puntate diretta da Roberto Andò, dove la fotografa era interpretata da Isabella Ragonese: la miniserie, intitolata Letizia Battaglia – Solo per passione, era stata scritto con il coinvolgimento e la supervisione della diretta interessata.

A un anno dalla morte di Letizia Battaglia, Franco Maresco dà alle stampe per Il Saggiatore il suo primo libro, intitolato sempre La mia Battaglia, recuperando le molteplici interviste-conversazioni che nel corso degli anni aveva avuto e registrato con l’amica fotografa. Una porzione importante del testo deriva dalle conversazioni registrate per il documentario omonimo, molte delle quali non erano neanche confluite nel montaggio finale, ma la seconda metà del libro, più libera e occasionaria, recupera squarci e momenti variegati del loro rapporto, a margine, spesso, di importanti incontri con il pubblico tenutisi in vari luoghi d’Italia. Leggendo il libro da cima a fondo, sorprende innanzitutto l’insistenza con cui la Battaglia aveva raccontato a Maresco il suo desiderio di fondare il Centro Internazionale di Fotografia a Palermo, anche per assicurare una congrua conservazione ai suoi negativi fotografici; solo dopo molti anni di attesa, un lungo braccio di ferro con le istituzioni locali, e anche la minaccia di occupare autonomamente il luogo scelto, la Battaglia era riuscita a fondare il Centro. Un altro leit motiv e anche motivo di discussione tra i due interlocutori sta nel giudizio politico all’operato di Leoluca Orlando, per ben cinque volte eletto sindaco di Palermo a partire dagli anni ottanta: senza negare occasionali errori e defaillances, la Battaglia si schiera sempre e perennemente a favore del sindaco, Maresco, che pure dice di averlo votato in alcune occasioni, appare più critico; entrambi convengono che non è un segnale positivo il fatto che in quarant’anni non si sia imposto un successore a un politico impegnato in un contesto territoriale tanto accidentato.
“Il mio archivio fotografico è anche un tesoro di vita e di bellezza, ma dentro questo archivio c’è tanto, tanto, tanto – è brutto dirlo – tanto sangue”. Dall’inizio alla fine delle sue conversazioni con Franco Maresco, Letizia Battaglia esplicita la difficoltà che ha sempre avuto come fotoreporter nel testimoniare gli attentati della mafia: nel dialogo con l’amico regista evoca anche il periodo del suo impegno politico, un momento in cui mise del tutto e consapevolmente da parte la fotografia, ma al di là dei dati biografi è parsa sempre costante, da parte della Battaglia, l’attenzione per l’irrappresentabilità della morte, del dolore, un atteggiamento diametralmente opposto a quello dei più classici fotografi d’assalto. “Non ho fotografato La Torre. A farlo è stato un fotografo che era con me, si chiamava Riccardo Liberati. Io non potevo fotografare quell’uomo caduto dentro la sua macchina, con il piede fuori dal finestrino”, racconta la Battaglia a Maresco. “Guarda, alla fine io non ho più fotografato i nostri giudici ammazzati. Terranova, sì. Costa, l’ho fotografato. Erano brave persone. Alla fine non ce la facevo più, non potevo più vedere la gente ammazzata”. Particolarmente raggelante, in questo senso, è il racconto del primo morto ammazzato che la Battaglia ha visto e fotografato, in un paradossale contesto bucolico nella campagna di Palermo. “Mi ricordo che il primo che mi rifiutai di fotografare fu il giudice Rocco Chinnici, perché l’avevo conosciuto”, spiega la Battaglia a Maresco. “Io non ho fotografato Falcone, non ho fotografato Borsellino. Avevo la macchina fotografica, ma non ne potevo più”.

Nelle varie conversazioni con Maresco, a più riprese la Battaglia omaggia i suoi maestri, più americani che italiani: particolarmente importanti furono per lei Diane Arbus e Josef Koudelka. Affascinanti i racconti dei suoi incontri con Pier Paolo Pasolini, un incontro pianificato ed agognato, e con un anzianissimo Ezra Pound, casualmente avvenuto a Venezia. Ma, per quanto la Battaglia ha esposto le sue fotografie in tutto il mondo e ha viaggiato in lungo e in largo per il pianeta, da queste interviste traspare quasi ossessivamente il suo amore per Palermo, la città al centro di tutta la sua poetica. L’unico momento in cui la Battaglia si è volontariamente allontanata da Palermo è stata all’inizio del periodo del berlusconismo, “quando Berlusconi si è impadronito delle coscienze di molta gente e ho visto che la gente non capiva più niente, non aveva più ideali buoni e non voleva più la bellezza”. Dopo un soggiorno a Parigi però la Battaglia è tornata, per un inestirpabile “bisogno di Palermo”. E per quanto Maresco denunci come “il cuore di Palermo è diventato un non-luogo, simile a tutti i non-luoghi del mondo”, “in via Maqueda sono spariti i negozi storici, è sparita ogni attività artigianale, spontanea”, in quasi tutte le loro conversazioni la Battaglia gli risponde esternando la sua speranza per una rinascita culturale della città.
La mia Battaglia di Franco Maresco va ben al di là dei confini di un dovuto omaggio a una mentore, collaboratrice e amica: il primo libro del (co-)autore di Totò che visse due volte e Lo zio di Brooklyn, oltre che regista in proprio di Belluscone e La mafia non è più quella di una volta, è un ritratto assolutamente vivo della sua protagonista, nonché il racconto di decenni di vita palermitana. Proprio per il suo sguardo doppiamente autoctono, è il complemento perfetto a un altro, importante libro-dialogo con la Battaglia uscito qualche anno fa, Volare alto, volare basso di Goffredo Fofi, edito dalla Contrasto. Da entrambe le pubblicazioni esce una testimonianza particolarmente vivida e convincente di come il linguaggio della fotografia, senza l’ossessione della tecnica, possa tramutarsi in ragione e stile di vita, di come lo scattare foto possa essere non solo un mezzo di comunicazione, non solo un atto politico, ma un impegno esistenziale sincero e rigoroso.

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