
INK di Papaioannou: trasmissione liquida di una violenza mitica
Come preannunciato dai diversi materiali promozionali del Festival FOG VI, per lo spettacolo INK di Dimitris Papaioannou la scena del palco di Triennale Milano si apre in un luogo indefinito, dove un uomo vestito di nero se ne sta solo e bagnato fradicio a manovrare un irrigatore in costante emissione di getti d’acqua, più o meno potenti a seconda delle valvole che l’uomo appone all’imboccatura. Lo spazio scenico, per lo più vuoto e già allagato, è un tutt’uno con l’elemento acquatico che è in costante flusso lungo di esso, e porta lo spettatore a percepire l’insolita, massiccia, presenza liquida più come un elemento visivo e sonoro, che naturale: l’acqua in volo su sfondo nero disegna geometrie ingovernabili e imprevedibili, correlative all’azione attoriale, e in questo modo produce una variegata frequenza sonora, una vera e propria partitura costante che sostituisce e costituisce senza fatica il vero testo dell’opera.

Non ci sono dialoghi in INK di Dimitris Papaioannou, eppure la loro assenza è a malapena percepibile. Fino all’arrivo del secondo interprete, contrapposto al primo per mezzo di una visibile differenza d’età così come dalla nudità integrale, il tappeto sonoro è ricchissimo e messo in scena attraverso i movimenti degli interpreti, nella costante interazione con la scenografia e gli oggetti presenti. Attraverso incontri-scontri coreografici incessanti, i due protagonisti diventano tutt’uno con i pannelli di plexiglas, la grande boule e, inevitabilmente, le masse d’acqua presenti: quella che appare come una lotta di dominazione non troppo violenta, quasi omoerotica, sembra così rifarsi a un mito generativo che ha a che fare con la storia maschile.

In questo senso il collegamento con la mitologia dichiarato dall’attore-regista greco, per quanto velato, appare comunque evidente: attraverso un continuo – ma mai del tutto convinto – tentativo di prevaricazione reciproca, quasi animale (e qui gli oggetti di scena, esseri apparentemente organici, potrebbero assumere un significato molto meno simbolico di quanto possa sembrare), quella che viene rappresentata e perpetrata sembra essere la trasmissione edipica e quindi conflittuale della violenza maschilista, che coinvolge, investe e penetra indistintamente, corrodendo i suoi stessi protagonisti, che siano più o meno coscienti o involontari.

La tragedia si compie quindi davanti a un pubblico inerte e a suo modo macabramente affascinato, in un parallelismo che pare alludere davvero a secoli di storia inconsapevole così come alla odierna, sottile violenza, ben visibile e udibile, eppure spesso ignorata. La composizione a tratti lievemente cyberpunk di Papaioannou sembra non cercare risposte, ma pura rappresentazione emotiva. Anche per questo, seppure lo spettacolo colpisca fin dal primo momento e tenga l’attenzione costantemente ed egregiamente alta, attraverso una magistrale sapienza scenica e drammaturgica tanto nell’ideazione quanto nell’interpretazione, una volta usciti dal teatro si rischia forse l’effetto estetico-estatico, rimanendo ancorati all’esperienza “audiovisiva” nel suo pieno sviluppo, ma marcando una certa distanza con essa poco dopo, riempiti come la sfera trasparente che è in scena e come questa fatti roteare così vertiginosamente da rimanere, infine, svuotati e inermi.

Un spettacolo che merita assolutamente di essere visto e vissuto, una ventata di teatro europeo che non manca di proporre un’esperienza fisica forte e a suo modo impressionante. Se poi l’impressione non dovesse rimanere a lungo, sarà solo un ulteriore stimolo per tornare a vedere un autore, Dimitris Papaioannou, unico nel suo stile e imprescindibile per la sua capacità di renderlo familiare al pubblico di mezza Europa.
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