
Le lettere – Pasolini Déluge #8
Tra i grandi avvenimenti editoriali venuti più o meno a coincidere con il centenario pasoliniano, caduto nel 2022, non si può non sottovalutare l’importanza filologica della nuova pubblicazione de Le lettere, un notevole volume di quasi 1500 pagine che raccoglie pressocché tutto l’epistolario pasoliniano ad oggi noto. Una prima edizione c’era già stata, in due volumi, sul finire degli anni ottanta, ma per una personalità pubblica così attiva e bulimica come Pier Paolo Pasolini era inevitabile che nuovi documenti privati continuassero ad emergere, portando così a una nuova edizione. I curatori del volume, edito dalla Garzanti, sono Domenico “Nico” Naldini e Antonella Giordano: il primo, cugino di Pasolini e suo biografo ufficiale, è scomparso a settembre 2020; la seconda, tra le principali studiose legate al leggendario Gabinetto Vieusseux di Firenze, ne firma la coincisa introduzione. Ciascuna delle lettere è ben contestualizzata da brevi ma puntuali note che chiariscono i riferimenti oscuri e, in coda al testo, raccontano gli antefatti e le conseguenze di ciascuna missiva. Il volume de Le lettere è inoltre corredato da una dettagliatissima cronologia della vita di Pasolini, e da un indice tematico indispensabile per orientarsi nel mare dei testi contenuti al suo interno.
Al di là degli infiniti motivi di interesse che il volume riveste per gli studiosi pasoliniani, Le lettere rappresentano, se così si può dire, una sorta di appuntamento obbligato con tutti i principali protagonisti della cultura italiana di metà Novecento: in esse Pasolini dialoga con nomi come Carlo Emilio Gadda, Livio Garzanti, Italo Calvino, Elsa Morante, Leonardo Sciascia, Renato Guttuso, Gianfranco Contini e molti altri, a ricordo di un’epoca in cui il dialogo tra intellettuali, scrittori e protagonisti della cultura di ogni tipo era molto più costante e quotidiano di quanto lo sia oggi. Ma fra le centinaia di lettere contenute nel volume, alcune spiccano fra altre per una sconvolgente commistione tra pubblico e privato, tra biografia e opera, a volte, addirittura, tra Storia e poesia.

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“Caro Guido, ora che so che tu sei morto mi pare di conoscerti veramente; e so cosa vuol dire il nome fratello. Tutto il nostro passato mi torna nel cuore, ora come se fosse perfettamente vero, ora come se fosse un sogno. Non so convincermi di nulla, se non che devo confortare nostra mamma”. Così Pasolini scrive in una lettera, datata maggio 1945 e rivolta al fratello Guidalberto poco dopo aver appreso della sua morte nello sconvolgente eccidio di Porzûs del febbraio dello stesso anno, il controverso episodio in cui dei partigiani comunisti uccisero la brigata di partigiani cattolici e socialisti di cui faceva parte anche il fratello minore di Pasolini. La perdita del fratello fu la prima e la più grande tragedia della vita di Pasolini, e la figura dello scomparso Guido continuò a riverberarsi lungo tutta la sua opera, con particolare insistenza nelle liriche contenute nella celebre raccolta de Le ceneri di Gramsci. Nelle righe successive della lettera allo scomparso, scritta da un Pasolini ventitrenne, già si assommano tutta una serie di motivi che faranno parte della sua opera matura: la nostalgia dell’infanzia, il rimpianto, l’insondabile vicinanza tra i membri della stessa famiglia, la figura di una madre tanto positiva come figura quanto assolutizzante nel suo amore. “Non mi meraviglio se penso che tutto il tempo della nostra vita comune, non abbiamo saputo adoperarlo: è sempre così. Il meraviglioso è che sia così anche per noi”, scrive Pasolini al fratello perduto. “Per noi che s’andava a dormire in una cameretta, insieme, da tutti i pochi anni della nostra vita, cioè da un tempo infinito; e ci sentivamo respirare e dormire, infastidendoci l’un l’altro, molte volte, con la sola nostra vicendevole presenza; per noi che si mangiava ad una tavola, in dei piatti lontani un palmo, e ci siamo sentiti masticare e inghiottire a mille cene, ognuno dei due con i suoi pensieri, ma sempre legati nel corpo di nostra madre, stretti dal suo amore comune”.

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“Carissimo Fortini, ieri notte è morto mio padre: ti scrivo dunque due righe: il suo corpo è ancora qui in casa, partiamo domani per Casarsa per il suo funerale, e puoi immaginare quindi lo stato d’animo in cui mi trovo”. Questa lettera, datata 20 dicembre 1958, ci porta immediatamente dentro un altro dei lutti privati che turbò la vita di P.P.P., la morte abbastanza improvvisa del padre, il colonnello Carlo Alberto Pasolini. I rapporti tra lo scrittore e suo padre furono, come più volte raccontato da P.P.P., di gran lunga meno lieti dell’affetto che lo univa a sua madre, anche se proprio negli ultimi anni di vita, dopo un trasferimento quasi forzato a Roma e la pubblicazione dei primi testi importanti del figlio maggiore, erano sembrati riavvicinarsi. Distante tredici anni dalla precedente, questa lettera in effetti si colloca in un momento di passaggio molto importante della carriera letteraria di Pasolini, e una spia di questo mutamento è proprio l’interlocutore: il “carissimo Fortini” cui si rivolge la lettera è Franco Fortini, poeta e letterato di cinque anni più anziano che negli anni cinquanta era stato uno dei principali compagni di strada di Pasolini.
Nonostante il fatto che la morte del padre sia avvenuta appena un giorno prima, Pasolini avverte l’esigenza di scrivere a Fortini per convincerlo a restare all’interno della compagine redazionale della rivista Officina: fondata a Bologna nel 1955 su iniziativa di Francesco Leonetti, di Roberto Roversi e dello stesso Pasolini, Officina si trovava in un momento di crisi dovuto a un contrasto tra i vari redattori sui contenuti e sull’orientamento ideologico da dare tout court alla rivista: Fortini in particolare, un veteromarxista assolutamente apartitico, si trovava in una posizione marginale e minoritaria, ed era sempre più propenso all’idea di abbandonare il gruppo. Appreso ciò, Pasolini gli confessa che “stavo per scriverti che se non rientravi in redazione ne uscivo anch’io”, e anche se deve ammettere “che c’è forse qualcosa di oggettivamente difficile nel tuo carattere (non per me, credo, ma in genere per quasi tutti coloro che sono in rapporto con te”, vuole a tutti i costi che Fortini rimanga un membro attivo. “È impossibile, credo, andare avanti senza la tua presenza, senza la tua disperata intelligenza critica, la tua acuminata angoscia”, e pur di continuare ad avere Fortini al suo fianco nella redazione di Officina Pasolini si propone anche di fare da mediatore, per cui Fortini dovrebbe mandare le sue opinioni prima a Pasolini, che le avrebbe girate al resto del gruppo. Nonostante questo paradossale tentativo di mediazione, la rottura si rivelerà inevitabile, e non solo tra Fortini e il gruppo di Officina, ma tra Fortini e Pasolini stesso, come ricordato dal primo in Attraverso Pasolini, una delle analisi più lucide mai scritte sul conto di P.P.P.: ma questa lettera, scritta all’indomani della morte del padre Guidalberto, sintetizza, nel giro di pochi, concitati paragrafi, una tragedia privata e le grandi battaglie ideologiche della Sinistra italiana degli anni cinquanta, la quotidianità delle redazioni delle riviste culturali di metà secolo e un rapporto di amicizia tra poeti che nonostante tutti i dissidi e i successivi allontanamenti hanno lasciato un segno su tutta la cultura italiana loro a seguire.

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“Cara Maria, stasera, appena finito di lavorare, su quel sentiero di polvere rosa, ho sentito con le mie antenne in te la stessa angoscia che ieri tu con le tue antenne hai sentito in me. Un’angoscia leggera leggera, non più che un’ombra, eppure invincibile”. In una delle lettere più toccanti e complesse dell’intero epistolario, Pasolini scrive così a Maria Callas nell’estate del 1969, durante le riprese della Medea che vedeva protagonista assoluta la diva dell’opera. Nel giro di una dozzina d’anni, tutto è cambiato nella vita di Pasolini, e dallo status di esordiente di classe, di poeta civile e di romanziere scandaloso che aveva sul finire degli anni cinquanta P.P.P. è diventato una figura di intellettuale, letterato e cineasta noto a livello internazionale, ancora scandaloso e spesso portato addirittura a processo per i suoi film com’era capitato già al suo romanzo d’esordio Ragazzi di vita, uno dei pochissimi registi al mondo a riuscire a convincere la Callas a recitare per lui in un film che non prevedeva nemmeno un brano cantato. Quello che accade sul piano personale tra Pasolini e la Callas nello girare la Medea è passato attraverso variegate interpretazioni e infinite speculazioni, e forse poco importa: certo Pasolini sentiva di aver compreso a un livello fondamentale la complessa personalità della vita, se aveva il coraggio di scriverle che “tu sei come una pietra preziosa che viene violentemente frantumata in mille schegge per poter essere ricostruita di un materiale più duraturo di quello della vita, cioè il materiale della poesia”. Nella lettera, Pasolini si interroga e rassicura la stessa Maria Callas sul dispositivo fondamentale del cinema, sull’inevitabile scomposizione del reale e della figura umana stessa che esso comporta, in una dinamica un po’ benjaminiana, che solo il montaggio ricompone. “Il cinema è fatto così, bisogna spezzare e frantumare una realtà ‘intera’ per ricostruirla nella sua verità sintetica e assoluta, che la rende poi più ’intera’ ancora”, scrive Pasolini alla diva, esponendo per lei una teoria che, nella sua opera letteraria, avrebbe trovato collocazione definitiva all’interno di Empirismo Eretico, un testo di semiotica che lo portò a una momentanea lite con Umberto Eco. Ma la teoria, nel momento in cui Pasolini alla Callas, è lontana: c’è la quotidianità del set, ci sono le riprese, c’è la natura della Cappadocia. “io oggi ho colto un attimo del tuo fulgore”, scrive Pasolini all’amica, “e tu avresti voluto darmelo tutto. Ma non è possibile. Ogni giorno un barbaglio, e alla fine si avrà l’intera, intatta luminosità”.

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“Cara Graziella, verso le 2 ci sarà una pioggia di telefonate di gente a cui ho promesso un appuntamento: per es., il figlio della Boratto e un poeta di nome Cavalli. Tu distribuisci gli appuntamenti per tutto domani pomeriggio dalle 2 ½ in poi a distanza di tre quarti d’ora uno dall’altro. Verso sera poi andrei a Chia col fotografo. Se hai tempo ricopia anche l’articolo su Warhol, che è sulla scrivania, lasciando in bianco i nomi che non ricordo”. Questa lettera, in realtà un semplice biglietto di promemoria, è l’ultima dell’epistolario pasoliniano. Qui P.P.P. si rivolge banalmente a Graziella Chiarcossi, una sua cugina di vent’anni più piccola che viveva con lui e con la madre Susanna, e che da diverso tempo gli faceva da segretaria. Questo biglietto autografo risale all’ottobre del 1975, a pochi giorni prima dall’omicidio che tolse la vita a Pasolini la notte del 2 novembre. C’è la quotidianità di Pasolini, ci sono i suoi appuntamenti e le sue reti di amicizie, c’è un accenno all’ultimo, scandaloso servizio fotografico che Pasolini volle dedicare alla sua persona, con la complicità del fotografo Dino Pedriali, che su sua richiesta gli scattò anche alcuni nudi nella sua residenza di campagna alla Torre di Chia; c’è il riferimento anche a Ladies and gentleman, il testo di presentazione a una delle prime mostre italiane di Andy Warhol, prevista per l’anno successivo a Bologna, che fu uno dei primi testi postumi di Pasolini a venire pubblicati. In queste poche righe c’è una vita spezzata a metà, e una quotidianità frenetica, una gentilezza di altri tempi, e una notevole sicurezza nei modi. C’è Pasolini, in fondo, giunto inconsapevolmente alla fine della sua vita, un Pasolini ancora umano, poco prima di essere trasformato in un martire letterario da un delitto fin troppo scenografico e sacrificale.

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