
Sulle vie dell’Inferno – Mimmo Cuticchio | Torino 40
Gli interni di un museo, il retrobottega di un artigiano di bambole o le quinte di un tradizionale teatro di marionette, i dettagli di un luogo magico e ancestrale aprono l’ultimo lavoro di Mimmo Cuticchio – in concorso alla 40esima edizione del Torino Film Festival nella rosa dei documentari italiani – una doppia presentazione scenica che dispone allineati, come i suoi Pupi, i motivi di un lavoro così ibrido e insieme così antico. È la voce dello stesso autore e regista a introdurre Sulle vie dell’Inferno alla macchina da presa, narrando da cuntista la scelta di omaggiare i 700 anni dalla morte di Dante e di riproporre con i propri mezzi una nuova “visione” della Commedia: una visione transmediale.
Combinando l’oggetto tradizionale dell’Opera dei Pupi – i poemi cavallereschi – con la rilettura dell’opera magna dantesca, Cuticchio sceglie per il suo poema olistico Ariodante, tradizionale personaggio del popolo dei Pupi, che per la crasi voluta nel nome, tra quello dello stesso fautore Ariosto e Dante, sembra il protagonista-meticcio perfetto per un’opera contemporanea che scavalca le categorie tradizionali di riferimento. Ariodante è il cavaliere che nell’Orlando Furioso s’innamora di Ginevra di Scozia, innervando una narrazione eco della tragedia di Paolo e Francesca, e stabilendo così una scala diatonica di rimandi e ricorrenze tra forme e contenuti.

Adattando il topos fiabesco legato alla “vitalità” dei giocattoli, alla vita privata dei Pupi alle spalle dei “cuntastorie”, Cuticchio aziona la sua narrazione abbandonando il teatro in attesa che i Pupi si rianimino e vivano la propria esistenza indipendente nel ruolo che più li aggrada. Ariodante allora mette in scena una selezione tratta dalla prima Cantica della Commedia, un errare episodico che provoca con successo le potenzialità espressive e sceniche dei Pupi, così come l’adattamento da “grande” a “piccolo” teatro degli oggetti di scena, delle luci, degli effetti speciali e della scenografia. Il teatro in miniatura di Cuticchio, enfatizzato dalle riprese, diventa un gioiellino dalla potenza vitale incommensurabile, calamita per un pubblico che non solo può recuperare un genere poco diffuso, ma che a livello tras-generazionale non a fatica potrà vedere nei movimenti meccanici dei Pupi, nella capacità icastica dei loro volti e nella strategia di “animazione” di questi antropomorfi oggetti inanimati, la motion capture fatta a mano, la pre-Pixar, il videogioco tangibile.
Nel documentario di Cuticchio la macchina da presa rende quadridimensionale il teatro dei Pupi e gli conferisce una veste ultramoderna. Come un Caronte a raggi catodici, lo schermo traghetta i Pupi dal teatro al mondo esterno, dalle istallazioni luminose del piccolo boccascena ai paesaggi siciliani: la Passeggiata di Goethe sul Monte Pellegrino a Palermo, la Torre di Messina da cui si guardano Scilla e Cariddi, la Necropoli di Pantalica a Siracusa, le terme libere di Segesta in provincia di Trapani, il grande Ilice secolare sull’Etna nella provincia di Catania, la Miniera di Sommatino a Caltanissetta, la Cava di Ispica a Ragusa, l’Isola di Linosa in provincia di Agrigento, la Rocca di Cerere ad Enna.
L’occhio esperto di Daniele Ciprì, che ha coordinato luci ed ombre nelle scene di interni, si alterna ai contributi esterni girati da Chiara Andrich e Andrea Mura, così come la voce di Alfonso Veneroso, dedicata ai versi trecenteschi, si alterna a quella dell’autore che fa da cuntore onnisciente. Infine, le musiche di Giacomo Cuticchio, orchestrate dal vivo per le riprese, completano questa polifonia di contributi restituita allo schermo. La camera da presa, vero protagonista intruso nella squadriglia di Pupi del Mastro Cunticchio, è il Pupo del XXI secolo che giustifica la pluralità del titolo “vie”: vettori, possibilità di visioni, remake, rebout, drammi sempre contemporanei, nuovi ruoli e spettatori, tutti moltiplicati dalla sinergia tra i dispositivi.

Il lavoro documentaristico di Cuticchio, che consapevolmente dà vita a continui cortocircuiti tra racconto e paesaggio, narrazione e ambiente, propone uno script per la “sopravvivenza” artistica della tradizione, un antidoto all’oblio ma soprattutto la possibilità concreta di risignificare i vecchi mezzi e le vecchie storie, di scatenare il loro potere di riattivazione anche oltre il tempo concesso dalle mode culturali. L’operazione di Cuticchio, allora, racconta la semplice e ovvia verità che ci sono molti modi di vedere le cose, che la vera traccia del cambiamento sta nei dispositivi di visione – i Pupi come dispositivi per interrogare luoghi e memorie – e non nei fatti narrati, che sub specie aeternitatis sono sempre gli stessi. Sulle vie dell’Inferno non solo fa dialogare più arti, il visivo e il performativo, il teatro, il teatro dei Pupi e il cinema del reale, ma si interroga sul modo in cui la tradizione dialoga col contemporaneo, sul passato che intercetta e intercetterà i nuovi dispositivi del futuro per essere ancora una volta “ri-visto”.
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