
Corpo dei giorni – La militanza del filmare | Torino 40
All’interno della sezione dedicata ai documentari italiani in concorso al quarantesimo Torino Film Festival, Corpo dei giorni mette in dialogo il passato recente della nostra storia e il presente piegato e scosso dal turbine pandemico, con una preziosissima riflessione sul gesto filmico. Siamo tra le colline e i campi della Maremma, dove Pio porta avanti la gestione della sua fattoria. Ce lo spiega a debita distanza dalla cinepresa, cercando di mostrarsi naturale, dopo che dal fuoricampo è intervenuto un ragazzo a spostarlo per disporlo meglio all’interno dell’inquadratura. Come a voler imporre da subito la logica con cui guardare alle successive immagini: quella di uno sguardo che dirige, detta i termini e i tempi, dunque allontana l’impressione tradizionale di oggettività del cinema del reale. Del resto – e non lo scopriamo mica adesso –, il cinema è un gesto morale, a cui non sfugge mai una semantizzazione delle immagini più o meno voluta, cercata. Il collettivo registico sotto il nome di Santabelva, composto da Henry Albert, Gianvito Cofano, Saverio Cappiello e Nikola Lorenzin, si muove in modo deciso in questa direzione, raggiungendo la fattoria di Pio per fare la conoscenza del suo ospite, Mario Tuti. Ex terrorista e fondatore del Fronte Nazionale Rivoluzionario (una delle sigle del terrorismo di matrice neofascista), Mario è condannato all’ergastolo, ma si trova libero di trascorrere i mesi estivi dall’amico Pio a seguito dell’emergenza Covid-19. Ecco la circostanza, la possibilità del confronto.
Per il collettivo, incontrare Mario significa, più di tutto, stabilire un confronto con la Storia, rileggerla alla luce del presente e muoversi, dunque, nel solco di una personale militanza, distantissima da quella (ancora) indefessa di Mario. Ma non si viene a patti con una personalità che ha vissuto il secondo Novecento di assoluti sanguinosi e incendiari, tra attentati e omicidi, fughe e rivolte in carcere. Di Mario si può però mettere a fuoco il corpo e ascoltare le parole, cioè mettere per immagine la traccia più evidente di uno spaccato e di un’identità storica. Dalla struttura possente, ma bolso, la pelle madida e solcata dalle rughe; il teleobiettivo e il microfono agganciato alla polo spiano e ascoltano l’uomo rivelandone il carisma secolare e la naturale propensione alla leadership. Mario parla attraverso una saggezza aneddotica, recita versi di Renato Fucini, suggerisce al nipote spunti per la tesina di maturità sulla “paura come strumento di potere” (tra Spielberg, la Shoah e l’ultimo Polanski di J’accuse), parla sottovoce al suo cavallo accarezzandone con dolcezza la criniera. Appare così come quanto di più distante dai filmati di repertorio che riportano gli attentati ferroviari nella tratta Arezzo-Chiusi e gli omicidi multipli.

Raccordare nel montaggio le immagini dei due tempi, dei due volti della storia, produce una dissonanza che mortifica i quadri del paesaggio agreste, della cena sotto gli alberi al crepuscolo, delle movenze liquide tra gli animali e il granturco e di quelle aeree sul verde della Farnesiana. Una dissonanza che è già da sé un gesto morale, politico, quello smottamento che ha dentro di sé la carica violenta (con Barthes e Nancy) delle immagini, perché unisce i due tempi apparentemente incompossibili (ma è questo, in fondo, il potere del cinema) di chi paga dazio nel dolore per le stragi del passato e il presente eterno e conciliato del mondo rurale. Nel mezzo, ancora e sempre, il corpo e la voce di Mario che si pronuncia sulla dissolvenza del passato come fase apicale della sua storia, vestito di una personale eroicità e addotto alla lotta armata, “corpo vivo dei giorni”, e sulla paralisi, dall’altra parte, “il ristagnare del presente”. Persino Pio lo dice (solo in apparenza meno saggio, perché meno dialettico), raccogliendo dalla stanza da letto un calendario rimasto fermo al dicembre 2019: “il tempo si è fermato”. E lungo questo attraversamento, dentro Mario non c’è mai stato e mai continua a esserci dello spazio per il dubbio, neppure una fessura, un ritaglio.
Quello che Nikola e i suoi colleghi inseguono in cento giorni, incalzando l’ex terrorista in un dialogo che adopera le armi dell’inclusività e dell’inesperienza giovanile per accogliere la sicumera del tono di Mario e deviarla anche appena nella voce di un rimorso, non trova certo risposta, che sia anche quella del compromesso (“prendetemi così o ammazzatemi, perché io non ho voglia di cambiare”). Ma di là dalle parole, resta quella personale semantizzazione delle immagini, il lavorio militante del montaggio come pacificazione delle dissonanze. È l’atto del filmare che si dà come obiettivo (lo dicevamo, sin dalla prima sequenza) quello di esibire la propria presenza, non di illustrare. E così si apre pure al dominio della contingenza, l’imprevisto di un filmare continuo che si scuote e scopre, su tutte, la storia di Nazareno, collega di Pio, e delle figlie scomparse e riviste dopo anni. Personaggi che entrano nel quadro dalla porta di servizio e finiscono per cambiarlo, perché sul primo piano delle lacrime appena trattenute di Nazareno dopo aver interrotto la videochiamata con la figlia e i nipotini, c’è, ben lontano dall’immutabilità stanca di Mario e di un tempo apparentemente fossilizzato, l’aura emotiva (e allora bella) di un amore percosso dai dolori della distanza, e alla fine risolto, almeno questo, pacificato.
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