
Dave Filoni – Fenomenologia dell’uomo col cappello
Dentro ognuno di noi c’è un uomo col cappello. È una parte di noi, come si vede nel terzo episodio della undicesima stagione di The Big Bang Theory. Sicuro di sé, baldanzoso ma anche attento e pianificatore, l’uomo col cappello è un prodotto culturale del XX secolo. Capostipite fu senza dubbio John Wayne, ma se lo chiedete a me, il mio uomo col cappello è il recentemente scomparso Ron Masak, indimenticato secondo sceriffo de La Signora in Giallo, un vero e proprio John Wayne dei poveri (o della provincia se preferite) leale, onesto, cordiale e affabile ma anche con quella sana dose di gustosa idiozia che contraddistingue ogni sbirro con il quale abbia avuto a che fare Jessica Fletcher. L’uomo col cappello si presenta o si congeda con un cenno impercettibile ma inconfondibile del suo accessorio, toccandosi il copricapo leggermente, accennando cioè a un saluto che è una sintesi perfetta di cortesia e praticità. Amo gli uomini col cappello e vorrei essere uno di loro, diamine se vorrei esserlo. Per questo scrivo questa fenomenologia dell’uomo col cappello, perché ne sono quasi ossessionato e caratteristica imprescindibile di ogni ossessione è quella di suscitare sentimenti altrettanto ossessivi di amore ma anche di odio. La tesi è la seguente: l’uomo col cappello non è mai scomparso da Hollywood, semplicemente ha cambiato saggiamente la sua posizione. Da creatura davanti alla cinepresa, a regista dietro la cinepresa fino alla metamorfosi più recente, quella di produttore e coordinatore.
In principio era il cowboy, figura storica mitizzata dal cinema ma che nella realtà era poco più di un fattore – un vaccaro appunto – alle dipendenze di proprietari di bestiame. Il cinema trasformerà queste figure in eroi delle epopee contemporanee, veri e propri modelli che ancora adesso dimostrano una grande versatilità e capacità di adattamento nei decenni. Cambiano le praterie, le armi e il bestiame, ma non cambia l’essenza del giustiziere disilluso e spietato ma con un cuore d’oro sepolto da qualche parte, di solito nei meandri di una sceneggiatura decente. Quando però il western tout-court ha lasciato spazio ad altri generi di successo, al cowboy sono successe due cose, non in contemporanea ma in successione: all’inizio si è semplicemente adattato alle nuove mode e generi cinematografici (vedi Han Solo, il quale pur non avendo un cappello è senza dubbio un eroe western) poi, quando il suo corpo non aveva più storie da raccontare, ha messo in gioco la sua mente e la sua immaginazione. Parlo di Clint Eastwood ma anche di “cowboy post-litteram” come Mel Gibson o Kevin Costner (discorso a parte ma collegato merita Tarantino), i quali hanno messo in scena storie di cowboy sui generis ma comunque autenticamente di frontiera, per così dire. È degli anni 2000 però la metamorfosi più curiosa e inaspettata, cowboy che diventano produttori di mega-franchise eterni e ramificati. Film e serie sono il nuovo bestiame da tenere a bada e da far crescere e anche in questo caso gestiscono mandrie (di prodotti) che non sono legalmente una loro proprietà, ma sui quali inevitabilmente lasciano il loro segno. Esatto, sto parlando di signori come Kevin Feige e il recentemente controverso Dave Filoni.

Entrambi uomini dotati in egual misura di carisma e cappello (tanto di cappello), i due cowboy da diversi anni ormai alle dipendenze di Disney hanno dimostrato di saper tenere a bada un bestiame eterogeneo e sfaccettato e di saper mungere vacche dai seni rigonfi di possibilità. Li chiamiamo produttori, ma anche allevatori visto che per anni (specialmente il primo) hanno allevato veri e propri pezzi di bestiame (leggasi “attori”) facendoli crescere e maturare all’interno dei propri recinti. Ma se Feige, pur non senza errori e talvolta sbavature, sta riuscendo a riunire a ogni fase sotto il proprio lazo mandrie sempre più numerose e diversificate (si veda il lento ma graduale assorbimento del mondo Marvel Television nel suo MCU iniziato nel 2019 con Avengers: Endgame), Filoni negli ultimi anni sta iniziando sempre di più a manifestare elementi di egomania che inevitabilmente arrecano danni all’universo Star Wars. In altre parole Filoni è quel cowboy che pur lavorando per un ranch non suo, appone il proprio marchio un po’ abusivamente a diversi pezzi del bestiame. Se avete visto la recente miniserie Tales of the Jedi su Disney+ (e conoscete un poco il nuovo canone attraverso anche libri e fumetti) sapete di cosa stiamo parlando.

A dirla tutta Filoni non sarebbe neanche un produttore visto che non è mai stato accreditato come tale, tuttavia è innegabile che la sua impronta tra vecchio e nuovo canone sia stata e sia ancora fondamentale per Star Wars tanto quanto Kevin Feige lo è per la Marvel. Di sicuro Filoni è un cowboy e non solo per il cappello quanto per l’audacia (ma diciamo pure prepotenza talvolta) con la quale abusivamente ci ricorda che i suoi personaggi sono solo suoi e nessuno glieli può toccare. I problemi alla lontana iniziano già con la settima stagione di The Clone Wars, prodotto qualitativamente impeccabile ma che ha sconfessato almeno in parte il romanzo canonico Ahsoka del 2016 di E.K. Johnston. I problemi sono continuati con The Bad Batch che tra le altre criticità ha sconfessato il fumetto – anche questo canonico – Kanan L’ultimo Padawan di Greg Weisman (autore di cosucce come le serie animate Gargoyles e The Spectacular Spider-Man) per i disegni del romano Jacopo Camagni. Ora per quanto i personaggi di Rebels possano essere suoi, chiunque, persino Filoni, dovrebbe avere un minimo di rispetto per un narratore del calibro di Weisman. Invece Filoni sceglie deliberatamente di escludere, riscrivere e riappropriarsi di eventi e situazioni che banalmente non sono sue. Può legittimamente farlo? La risposta breve è no. Quella lunga pure.

Tales of the Jedi era il nome di una serie a fumetti della Dark Horse del 1993 durata ben cinque anni. Copriva l’arco narrativo della Grande Guerra Iperspaziale, eventi che saranno poi in parte integrati e in parte retconnati nel franchise The Old Republic. Era il primo prodotto ufficiale Star Wars a non essere direttamente collegato agli eventi dei film e per questo assunse un’importanza rilevante nel fandom lucasiano. Ancora una volta, Filoni dimostra di conoscere bene il materiale di provenienza scegliendo di riprendere il logo della serie a fumetti e collegandosi quindi a una tradizione vecchia quasi trent’anni ormai. Poi però, come spesso accade decide di fare le cose troppo a modo suo ed è qui che iniziano i problemi. La serie tv Tales of the Jedi ha solo problemi che vanno dalla ormai inflazionata animazione (non di per sé brutta, anzi, ma in questa serie non al suo meglio) a una scrittura penosa che rende persino i suoi episodi migliori inutili. Che bisogno c’era infatti di mettere mano ancora al romanzo di Johnston (sesto episodio), di mostrare il passato di Dooku senza dare le giuste coordinate narrative? Lo sapevate ad esempio che nel quarto episodio Dooku non è più uno Jedi? E nel caso non lo sapevate tranquilli, perché se non avete letto il romanzo canonico Dooku Jedi Lost non potevate saperlo ma è un’informazione essenziale per capire (o incasinare ulteriormente) le azioni del protagonista.
Per non parlare poi della presenza superflua e anzi problematica di Yaddle, uno spreco in piena regola che ci lascia con più domande che risposte. Vero esempio di inutilità poi è il primo episodio che mette in scena un evento della vita della piccola Ahsoka non solo poco interessante, ma pure scritto male. Come si può credere infatti alla madre della piccola togruta che mentre invita la figlia a bearsi dello spettacolo della natura e a rispettarla si inoltra nel bosco con un moschetto in mano per cacciare e uccidere un cervo? Anche ammesso che sia un rimando a una tradizione ancestrale dei nativi americani o a qualcos’altro che ora ci sfugge, la scena e l’episodio rimangono un pessimo esempio di scrittura. L’episodio migliore è senza dubbio il quinto ma anche qui i problemi si moltiplicano con la presenza totalmente fuori contesto del piccolo Kanan, un easter egg gettato lì totalmente a caso. Per un’analisi completa di ogni inesattezza e problema della serie, vi rimandiamo ai canali YouTube dell’Insolenza di R2D2 e di The Unbounds.

«Qualcuno fermi l’uomo col cappello», così titolava un articolo di Star Wars Addicted dell’anno scorso già citato da noi in un precedente pezzo e, se nel 2021 l’appello poteva sembrare ancora troppo allarmistico ma comunque fondato, ora ci sembra decisamente opportuno. Filoni straborda, invade, ci ricorda costantemente della sua presenza e anzi tradisce forse la sua paura di essere estromesso dal futuro prossimo di Star Wars che è improntato – lo ricordiamo – nel passato con il franchise dell’Alta Repubblica. Tales of the Jedi è solo l’ultimo tassello di un Filoni che entra senza permesso nei lavori altrui, prende al lazo vitelli che magari saranno anche figli di vacche gestite da lui, ma cresciuti da altri, il tutto però senza che nessuno lo fermi o lo limiti. Senza insomma una Kathleen Kennedy che gli dica che, per quanto possa far bene il suo lavoro, è bene non toccare quello degli altri, anche solo per rispetto. Ma Filoni evidentemente vende ancora, nonostante stia spremendo fino all’ultima goccia le sue vacche a costo anche di farle ammalare. Oltre a chiederci cosa ci stia a fare il tanto decantato “Story Group” della LucasFilm, non invidio chi si occuperà di aggiornare costantemente la timeline di Star Wars. A visione conclusa di Tales of The Jedi si ha l’impressione di essere in quel meme con Sailor Moon e Tuxedo Kamen: Filoni-Kamen si dilegua compiaciuto del suo lavoro mentre il pubblico spaesato come Sailor Moon si chiede «ma non hai fatto niente anzi hai incasinato ancora di più la situazione!». Ma Filoni, come ogni buon uomo col cappello, si dilegua salutando il suo pubblico, toccandosi il copricapo da cowboy, accennando un gesto di saluto che è perfetta sintesi di cortesia e praticità.
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