
Un’intervista vera a Nicola Feninno

Nicola Feninno (1987) è il fondatore e direttore editoriale della rivista CTRL Magazine. Inizia nel 2009 come rassegna di eventi e approfondimenti culturali sottoforma di fanzine, specializzandosi poi nel reportage, e dal 2018 ha lanciato CTRL Books, inziando a pubblicare con regolarità volumi più corposi, che raggruppano interviste e raccolte fotografiche attorno a un nucleo tematico. Stiamo scomparendo (2018) raccoglie testimonianze da luoghi d’Italia in cui l’italiano sta recentemente rimpiazzando la lingua tradizionale, spesso legata a peculiari vicende storiche. Gli ultrauomini (2019), I dimezzati (2020), e Gli estinti (2021) sono parte della Trilogia normalissima, raccolte di reportage concentrati sulle esperienze di persone ordinarie con storie fuori dal comune.
Sulla scia di questi lavori, a cui ha lavorato anche come autore, Feninno ha pubblicato con Industria & Letteratura Una storia vera (2022), nella collana L’invisibile. Un libro-reportage che riflette sull’uso del cinema nella propaganda bellica. Abbiamo voluto intervistarlo per capire cosa ci fosse di reale nella storia vera.
Intanto partiamo con una domanda che viene spontanea: come mai hai scelto di pubblicare con Industria&Letteratura invece che con la casa editrice di CTRL?
Non è stata una vera e propria scelta. Avevo questa storia nel cassetto da ormai due anni. Trattandosi di una sorta di cortocircuito tra finzione e realtà non mi sembrava adatta ad un reportage di CTRL: necessitava di una forma maggiormente letteraria, per quanto non avesse la struttura del romanzo.
Infatti è questa forma letteraria che mi permette di costruire la storia come una serie di scene. Del resto, anche se avessi raccontato una vicenda in ordine strettamente cronologico, mi spetterebbe comunque di scegliere che cosa raccontare.
Penso alla fotografia, che si esprime scegliendo cosa includere e cosa escludere dall’immagine. E in effetti nelle sessanta pagine abbondanti del tuo libro ti concentri sulla fotografia come una importante forma di testimonianza…
Assomiglia alla fotografia e ancora di più al cinema, all’idea di montaggio. Ho voluto calcare la mano su questo aspetto non tanto come virtuosismo stilistico: al centro della storia c’è un finto bombardamento che in realtà è avvenuto davvero: già questa premessa si realizza solo attraverso il montaggio, creando una realtà tramite lo smembramento e l’assemblaggio di un’altra realtà per uno scopo preciso. In altre parole la materia stessa della storia imponeva questo gioco stilistico
In più, un montaggio così caratterizzato serve a innescare nel lettore lo stesso corto circuito che si è innescato in me, la confusione su cosa sia la realtà. La prima scena – quella della mina inesplosa – ad esempio, non ha un ruolo strettamente narrativo ma serve a creare il movimento di aspettative e tradimento delle aspettative che connota tutto il volumetto. Io arrivo in questo paese, incappo nel rito dell’Uomo Cervo, nel museo dell’Uomo Cervo incappo nell’articolo di giornale che mi fa piombare in un’assurda storia che non conoscevo, sulle tracce di questa storia mi confronto con i proprietari del B&B in cui alloggiavo, che mi parlano invece della loro storia d’amore.
Il processo si può riassumere con una metafora: sto scoccando una freccia verso un bersaglio ma qualcuno tira la scenografia e il bersaglio si sposta: la freccia si conficca in un punto imprevisto che paradossalmente si rivela più interessante.
L’immagine di cui parli fa venire in mente, forse ingenuamente, il concetto di serendipità. La considereresti uno strumento del tuo fare reportage?
Sì, decisamente. Serendipità è il nome che noi diamo a qualcosa che avviene naturalmente, sempre.
Tanto per fare un esempio, la storia che racconto ha al centro gli americani, non solo perché sono stati loro a girare il documentario, ma anche perché hanno “inventato” o “dato un’accelerata fondamentale” alla società dello spettacolo e dell’esibizione, e contemporaneamente al mito del be yourself.
Nel reportage a maggior ragione, perché quest’attività non è giornalismo, non è mossa dalla necessità di portare a casa una notizia che si ha già in mente e che si vuole soprattutto confermare (non sarebbe questa la vocazione originaria del giornalista, ma così è diventato per necessità di tempo e denaro). Il reportage, fatto nel modo che a me piace, si basa soprattutto sulle sorprese. Questo non significa non pianificare, ma lasciare che gli interessi possano fluire. Sono stato a Castel Nuovo al Volturno per l’Uomo Cervo, e ho scelto quel periodo in particolare perché sapevo che il paese è spopolato ma che tanti emigrati sarebbero tornati per il rito. Se non fossi stato pronto non sarei mai incappato nella storia del finto bombardamento.
Si tratta di un continuo digradare, andare fuori strada, e c’è un grande rischio, che è quello di divagare solo per il gusto di farlo, per l’ego. Bisogna stare attenti a farsi muovere soprattutto dalla storia.
Al di là della riflessione metaletteraria che ne è pure una componente, questo genere di opera è storiografia, cronaca o …?
Una risposta facile potrebbe essere che è tutto questo insieme. Io credo che sia letteratura. Lo dico con un certo imbarazzo ma senza falsa modestia, prescindendo da questioni di valore. Nella letteratura possono fondersi tutti questi materiali: attualità, una certa dose di autobiografia (che non può che essere auto-fiction, persino se non è scritta), fonti storiche, riflessioni, ecc. La letteratura assorbe tutto e cerca di trascendere per arrivare a qualcosa di più ampio possibile, condiviso tra chi scrive e chi legge, in un certo senso universale seppure ancorato alla storia.
Anche il cercare di mostrare il “dietro le quinte” della scrittura è un modo per interrogarsi su quale sia la differenza tra il finto documentario girato dagli americani (che hanno preso dei pezzi di realtà e li hanno montati a loro modo) e quello che faccio io, che è comunque prendere dei pezzi di vita di persone che io incontro in quattro cinque giorni e metterli al servizio di qualcosa che diventa mio.
D’altra parte questo scrupolo, la preoccupazione di non ingannare in nulla il lettore si coglie dalla conclusione: «Chiedo perdono […] per aver giocato con la realtà dei nostri incontri in modo da avvicinare chi legge alla verità di questa storia».
Esatto, il post scriptum non è un paratesto ma l’ultima “capriola” della narrazione. Lì sottolineo la differenza, che secondo me può esistere, tra realtà dei fatti e verità dei fatti. La verità, in letteratura come nella vita, scaturisce proprio dallo sfregarsi tra realtà e finzione. Noi siamo quello che ci raccontiamo continuamente, dei fatti riraccontati.
Lo fai dire ad Andrea nella conversazione mai avvenuta sul valore della maschera…
Un’altra cosa che solo la letteratura può fare con tale intensità (nonostante ormai ci siano il cinema, la televisione, ecc.), forse anche per la sua marginalità e conseguente inferiore interesse economico, è lasciare scoperti dei paradossi, buttare lì delle cose sanguinanti senza bisogno di arrivare ad una morale della favola.
Un esempio che mi viene in mente: Lolita di Nabokov nel libro ha 12 anni; in Kubrik, che pure poteva permettersi molto, ne ha 14. Ciò non accade perché il cinema sia più moralista, ma perché ha un pubblico molto più ampio e più finanziatori a cui dar conto.
Nei reportage di CTRL affianchi la spiegazione a delle foto. Questo è il primo lavoro senza supporto visivo, e si vede dalle descrizioni che hai in mente delle documentazioni grafiche su cui lavori ma che non inserisci nella pagina.
Anche su CTRL c’è stata un’evoluzione. Sul sito si trovano reportage testuali affiancati da una consistente quantità fotografica in stretto dialogo con la parte contenutistica (stesso luogo, stessi protagonisti, spesso il lavoro è stato congiunto tra reporter e fotografo).
Anche Stiamo scomparendo ha questo meccanismo. Invece ognuno dei libri della Trilogia comprende tra i 12 e i 18 reportage testuali, che ruotano tutti attorno a una parola chiave, a cui si aggiunge un reportage fotografico che non è illustrativo o ancillare rispetto agli altri ma autonomo. Si tratta di un linguaggio diverso con il quale si affronta lo stesso tema.
In questo caso, oltre al fatto che non credevo sarebbe stato appropriato al format della collana, non ho inserito foto perché per certi versi uno dei grandi imputati della vicenda sono proprio le immagini. La società dello spettacolo, che negli anni della guerra è ancora ai suoi albori, distrugge un paese per veicolare messaggi di propaganda.
Potremmo pensare che gli spettatori attuali non si farebbero più ingannare da una rappresentazione così ingenua, ma è pur sempre vero che le immagini, molto più che le parole scritte, tendono sempre a restituire un’idea di realtà (anche se chi le guarda è ormai cosciente che esiste Photoshop). L’idea è ancor più forte per le immagini in movimento veicolate dal cinema. L’immagine di una massa di persone offerta da una telecamera è sempre molto forte, anche se la piazza poi è vuota dall’altro lato della ripresa.
Volevo evitare la presenza ingombrante dell’immagine, che qui è il grande assente e il polo negativo dell’argomentazione.
Nel montaggio delle narrazioni singole ci tieni a specificare che l’ultimo scambio, la testimonianza di Maria e Vincenzo, è quello che hai cercato di mantenere quasi invariato. Viene quindi da pensare che ci siano alcuni documenti che sono più veritieri di altri, o che comunque vale la pena di alterare meno.
Anche in quel caso ho voluto dare un indizio, non tanto di veridicità dei fatti ma di concentrazione di verità che come architetto della struttura narrativa ho voluto dare. Da un rito ancestrale, a un potentissimo episodio di Storia, si passa ad un nucleo minuto racchiuso in una casa, in una vita di coppia, in una storia che dura 70 anni. Quello che mi ha stupito e che vorrei stupisse è la potenza di questa storia, in cui due persone camminando insieme si imbattono in grandi eventi (la Seconda guerra mondiale, il bombardamento del loro paese, il terremoto). Loro, in maniera molto animalesca (il significato da attribuire al termine in questo caso è neutro e a-morale), hanno continuato ad andare avanti. Si tratta di qualcosa di inattuale a livello di story-telling ma che parla della nostra specie. Avanzare nonostante, nonostante il panorama intorno.
Volevo quindi mandare a chi legge un segnale non invasivo sul peso specifico di verità (non di realtà, perché per assurdo ci sono molti più documenti storici sulle altre parti).
Nella breve parte autobiografica hai fatto ben capire che anche la storia individuale è una costruzione a posteriori. Tu non hai memoria dell’avvenimento che racconti ma ne hai una foto, un documento che ti aiuta a ricostruirlo a posteriori. Questo punto di vista è calzante anche per la storia di Maria e Vincenzo, una sorta di autobiografia a due voci, in cui ogni testimone è suffragato dall’altro ma in cui, al tempo stesso, si procede ad una “scrittura di gruppo”. Dunque l’autobiografia funziona come una narrazione storica?
Ho scelto, un po’ a fatica, di inserire quell’episodio non tanto perché la mia autobiografia abbia rilievo ma proprio perché non volevo che uno dei nodi maggiori del libro, il rapporto tra realtà e finzione, venisse percepito come un tema specialistico. Per ciascuno di noi l’infanzia è quel luogo mitico che non è mai reale ma è sempre presente nei racconti, felice o infelice che sia. Nel caso del mio ricordo convivono i due poli opposti: quello dell’oggettività della foto e quello dell’emozione, non definita dallo spazio e dal tempo ma dalle due sensazioni, la meraviglia di essere scollegato da tutto e l’orrore. Io ricordo la sensazione in modo molto più netto della situazione stessa, la fotografia però dice com’ero vestito, com’erano gli ombrelloni, ecc.
Il ricordo, specialmente quello dell’infanzia, è anche (e forse soprattutto) ricostruzione; la riflessione che faccio sul reportage si può estendere quindi anche alla memoria individuale.

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