
Pistol – La rivoluzione in vetrina
Il tempismo di Disney nella pianificazione della distribuzione resta sempre molto inquietante: è infatti nella notte tra il 7 e l’8 settembre, vigilia della morte di Elisabetta II, che è stata distribuita in diversi mercati in cui è presente Disney+ (Italia compresa) la serie FX Pistol, diretta da Danny Boyle, che propone uno sguardo inedito ed estremamente sincero sull’avventura e la rivoluzione dei Sex Pistols nel Regno Unito degli anni ’70, dove in poco (e per poco) tempo le parole God Save the Queen avrebbero simboleggiato molto più che un inno nazionale. Confezionato in uno squisito 4:3 dalla grana e dal colore atti a mimare i supporti dell’epoca in modo da confondere il girato con i footage autentici, Pistol è il ritratto di una rivoluzione giocata tra le vetrine e le porte sul retro, mossa attraverso lo scarto che si apre tra gli estremi del disagio sociale: la rabbia e la paura, l’azione e la paralisi.

Nella serie di Boyle, il Punk nasce da David Bowie; nasce perché il Rock’n’Roll negli anni ’70 o era partito per un altro pianeta o sulla Terra era imbalsamato dietro performance di insipido visrtuosismo; il Punk nasce perché cantare Starman è più efficace per flirtare che per affermare alcunché; nasce perché il Rock’n’Roll, dopo vent’anni, era ormai datato e decisamente non più attraente. Queste le premesse che stanno alla base di come la serie vuol mettere in scena il bisogno di nascita dei Sex Pistols: «We’re not into music, we’re into chaos» diventa l’affermazione definitiva che rinnova un rifiuto estremo per quell’idea di fare, ascoltare e vivere la musica perfettamente integrata ed educata col proprio contesto (Roll Over Beethoven di Chuck Berry, nel 1956, diceva sostanzialmente la stessa cosa). Il Punk nasce dal furto di strumenti per una band che non sa suonare, che non vuole nemmeno imparare, e che più cresce nella propria consapevolezza, più rifiuta ogni possibile competenza e integrazione (qui il cambio tra Sid Vicious e Glen Matlock, o lo stesso ruolo da chitarrista di Steve Jones).

Affiancandosi a due visioni distinte e fallaci – e per questo mitiche, mitologiche – di cosa i Sex Pistols siano stati, Pistol di Danny Boyle fa intelligentemente propri sia il classico Sid & Nancy del 1986 (però ribaltandolo, spostando il focus e il target), sia il ruffianissimo e autocelebrativo The Great Rock ‘n’ Roll Swindle del 1980, maschera spesso dimenticata di una rivoluzione anestetizzata nel suo nascere. Boyle li fa propri perché la rivoluzione Punk dei Sex Pistols è prima di tutto una rivoluzione scopica, di immaginario, ancorata al vestiario e quindi alla dimensione corporea: nella serie il ruolo di Vivienne Westwood (una misuratissima Talula Riley) e del suo negozio – Sex, a conferire la parola mancante al titolo della serie – è centrale per comprendere dove la rivoluzione dovrà inevitabilmente fermarsi, dove il fraintendimento diventerà paralisi. E con lei, Malcolm McLaren, una sorta di Brian Epstein disilluso e cinico che ha l’ingannevole volto di Thomas Brodie-Sangster, sempre un gradino sopra le righe di un’esibita britishness da rivista.

La serie lo mostra chiaramente: quello che era l’ingenuo ed impulsivo rigetto dei figli della working class per la musica che erano costretti a chiamare Rock’n’Roll diventa l’immagine della rivoluzione Punk perché McLaren lo decide, perché ne prende in mano le redini e spinge sull’acceleratore di una svolta generazionale che chi la vive sembra accoglierla solo perché non c’è altro all’orizzonte; uno spot ben(mal)educato in grado di fagocitare individualità ed individui, tenendoli in vetrina finché sopravvivono all’esperienza. I sei episodi diretti da Boyle si traducono in un viaggio più veloce di quanto si sia in grado di digerire, perché velocissima è stata la parentesi culturale che promette di fotografare, senza indugiare sul superfluo, ma lasciandosi trasportare dai personaggi stessi che ne hanno colorato la scena: strepitosa Maisie Williams che regala tutto il suo corpo attoriale alla figura quasi spettrale di Pamela “Jordan” Rooke, vera risposta Punk alla polite-queerness di David Bowie.

Boyle misura con estrema attenzione lo scarto tra mimetismo ed interpretazione necessari a rendere efficace l’affresco visivo dato dai corpi che riempiono le sequenze di Pistol: se la strabiliante somiglianza di Louis Partridge è necessaria a restituire l’effetto di innocente tragedia che circonda la figura di Sid Vicius, attraverso immagini che sono icone di chi quel periodo storico lo ha mitizzato, la fisionomia estrema di Anson Boon dona al suo Johnny Rotten un’aura di rumore costante, di esplosione energica in ogni singolo movimento, sia attraverso le ottimamente dirette performance dei Sex Pistols sul palco, che nelle scene di vita quotidiana. In ciò si inserisce il personaggio centrale della serie, lo Steve Jones di Toby Wallace che abbandona il mimetismo per restituire l’impulsiva innocenza di un’intima rivolta nata dal disagio di non esistere, di essere sempre fuori posto, non voluto, inaffermabile.

La vera e potente unicità della serie di Danny Boyle è di restituire allo spettatore la componente più intimamente e pateticamente umana delle persone dietro alla rivolta, dietro alla vetrina: i sei episodi di Pistol vedono i Sex Pistols comportarsi e vivere come i ragazzi di vent’anni che erano, rendendo conto ai propri genitori, persino vergognandosi di superare un certo limite della loro spesso incontrollabile rivolta; la maschera e la persona, il domestico e lo scenico, dimensioni antitetiche che anestetizzano il male della rivoluzione lasciando forse in evidenza la truffa di chi l’ha esposta, ma anche la profonda sincerità di chi vi si trovava coinvolto. Pistol ha il coraggio di umanizzare realmente i propri personaggi, di farsi fotografia, quasi filmino di famiglia (si è detto, anche nell’uso dei formati), senza trascurare il racconto della dimensione musicale, necessaria, cruciale tanto quando è presente quanto quando viene rifiutata per lasciare spazio ad altro.

È infatti il personaggio di Chrissie Hynde – interpretata anima e corpo da una sbalorditiva Sydney Chandler, faro luminoso dell’intera serie, in grado di elevarne tanto il livello attoriale quanto la solidità rappresentativa – il perno cruciale intorno a cui si misura il percorso artistico dei Sex Pistols: il rapporto tra lei e Steve Jones diventa la backing track di cosa sceglie di essere la band, di come misurarsi nei confronti della musica e del fare musica; dove Chrissie è un’eccellente e talentuosa musicista a cui manca una scena, i Sex Pistols sono al centro di un palco scenico senza alcuna capacità musicale per starvi. Chrissie è immagine dell’età adulta che i membri della band e chi li circonda (strepitoso il confronto tra lei e la Nancy Spungen di Emma Appleton) si rifiutano di raggiungere, concedendosi solo per brevi istanti di sfiorarla, terrorizzati dall’afferrarla davvero; la rottura tra Chrissie e Seteve (inevitabile perché accurata, eppure terribilmente dolorosa) diventa irrevocabile come la promessa con cui si salutano: «See you on stage, Chrissie Hynde».

Consapevole e sincero tributo ad una rivoluzione istantanea come le tracce di cui è composto l’unico vero album dei Sex Pistols – Never Mind the Bollocks, titolo emblematico -, Pistol di Danny Boyle si aggiunge al ricco e sempre più interessante catalogo del network FX, faro per una certa immagine di serialità che fortunatamente trova spazio all’interno di Disney+. Un prodotto da vedere e rivedere, da gustare con calma soffermandosi sui dettagli del ricchissimo immaginario che riplasma attraverso la grana mimetica del suo profilmico, con sequenze da mandare indietro un paio di volte e performance da ascoltare a tutto volume. Una rivoluzione fasulla e fallita quella messa in scena da Boyle, ma dannatamente divertente, sexy ed eccitante!
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