
Mo – Un “refugee free agent” a Houston
Sono i minuti immediatamente precedenti al tramonto e una luce soffusa illumina caldamente Mohammed “Mo” Najjar (Mo Amer) e la sua fidanzata Maria (Teresa Ruiz) mentre si apprestano a scendere dall’auto del primo. A circondare la coppia è una distesa infinita di alberi di ulivo quando Mo si rivolge alla donna dicendo: «It’s beautiful, right? You know what I see when I see this? A little piece of home in Houston». Maria, guardandolo pensieroso, ribatte: «Houston is not home? ». «Of course, Houston is home. I have another home I can’t go to yet» è la significativa risposta fornita dal protagonista. È dunque già al termine del suo quarto episodio che Mo, la serie semiautobiografica targata Netflix creata e interpretata dallo stand-up comedian palestinese-americano Mo Amer e co-firmata da Ramy Youssef (già protagonista e creatore della serie Ramy in cui Amer intrepreta uno dei personaggi principali) ci comunica come l’identità del suo protagonista – tanto sullo schermo quanto nella vita reale – è stata forgiata in maniera unica dal complesso rapporto di appartenenza ai luoghi di cui è originario e in cui ha vissuto.

Autodefinitosi un refugee free agent, Mo ha origini palestinesi ma vive da 22 anni a Houston, nel quartiere di Alief, dove è approdato con la sua famiglia più di 10 anni prima fuggendo dal Kuwait durante la Guerra del Golfo e attende da allora, tra vicissitudini varie, il riconoscimento della sua richiesta d’asilo. Non possedendo un passaporto (quando Mo scoprirà che i cani della polizia lo hanno, l’ironia sarà pungentissima) è sia impossibilitato a lasciare gli USA che a vivere pienamente in regola nel Paese ed è perciò costretto a navigare la sua vita ai margini passando continuamente da una professione all’altra nel disperato tentativo, in assenza del padre morto tempo prima, di continuare a prendersi cura della madre Yusra (Farah Bsieso) e del fratello Samir (Omar Elba)
Nel corso degli otto episodi che compongono la serie lo vediamo perciò destreggiarsi tra numerosi impieghi lavorativi: all’inizio è un esperto riparatore di telefoni, poi un abile venditore di merce contraffatta e uno spassoso dj in uno strip club e per finire un innovativo raccoglitore di olive. Le sue brillanti doti da salesman (riuscirà persino a convincere un anziano texano ad acquistare delle strane scarpe costose) e la sua resiliente capacità di adattamento (caratteristica che secondo Mo si è rivelata fondamentale nella sopravvivenza delle persone palestinesi) sembrano consentirgli delle tregue temporanee dalle difficoltà della vita. Imprevisti sempre più assurdi, il lungo e tortuoso processo di riconoscimento d’asilo, nuove informazioni dolorose sul padre e i dubbi nello sposare Maria perché non approvata dalla madre faranno però riaffiorare in lui importanti traumi personali e generazionali che gli renderanno impossibile non rimanere schiacciato dal carico enorme che porta sulle spalle.

È Houston a fare da sfondo alle sue numerose (dis)avventure perché percorsa in lungo e in largo da Mo con la sua auto. Una città vissuta che diventa in tal modo fecondo luogo di incontro e intersezione di lingue (arabo, spagnolo e inglese in questo caso), culture (la cultura arabo-palestinese di Mo e della sua famiglia, quella messicano-americana di Maria e quella afroamericana di Nick, migliore amico del protagonista interpretato da Tobe Nwigwe) e religioni (la fede musulmana di Mo e quella cattolica della fidanzata). Dalla boccettina di olio che porta con sé ovunque vada al modo accurato con cui prepara l’hummus, le origini palestinesi di Mo occupano infatti un ruolo di primo piano nella sua quotidianità, incidendo profondamente sul punto di vista che il protagonista possiede sul mondo e rendendo la serie una pietra miliare per la (purtroppo quasi inesistente) rappresentazione arabo-palestinese nei media.
Riprendendo dai suoi due speciali di stand-up comedy (The Vagabond del 2018 e Mohammed in Texas del 2021, entrambi disponibili su Netflix) la sua peculiare narrazione di sé e la sua inconfondibile presenza scenica, Amer riesce a raccontare in modo unico la sua personalissima storia mostrando allo stesso tempo le assurdità vissute ogni giorno dalle persone immigrate negli Stati Uniti e confezionando una puntuale lettura della società statunitense (il dialogo tra i due agenti che discutono tranquillamente sul numero di vittime necessarie per classificare o no la sparatoria in cui Mo è stato malauguratamente ferito come mass shooting è uno scambio terribile ma esilarante).

In una dramedy packed with jokes ma con la capacità di affrontare anche un ampio spettro di emozioni, Mo Amer – come qualsiasi bravo comico che si rispetti – non possiede quindi solo un eccezionale timing comico, ma è bravo a mostrare sul suo volto – soprattutto in quei momenti in cui la frenesia dello show sembra diminuire – una potente drammaticità facendo intravedere, più al pubblico che alle persone che lo circondano, le profonde crepe che si celano dietro la maschera sociale che indossa. D’altronde poco prima che partisse per gli Stati Uniti il padre, restituendogli il suo walkman riparato, aveva consegnato a Mo anche un’importante lezione dicendogli che «Nothing in this life breaks that cannot be fixed». A noi spettatori allora non resta che sperare che lo stesso clemente destino possa essere riservato anche a suo figlio e al nostro protagonista.
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